
C’è un solo modo per iniziare a parlare della “Freccia nera”, indimenticabile sceneggiato televisivo di decenni fa, è questo: “La freccia nera fischiando si scaglia / e la sporca canaglia un saluto ti dà”.
Sono le parole di una delle sigle televisive più amate e cantate di tutti i tempi, almeno in questo paese. All’epoca la stragrande maggioranza della popolazione italiana, comprese anziane ultraottantenni con almeno due infarti alle spalle e mocciosi piagnucolosi che a stento dicono mamma, sapevano citare almeno un verso di quel trascinante motivo. Io conoscevo tutta la canzone da cima a fondo, inclusi i fischi e l’epico “la-la-la” del coro dei briganti della foresta, e non ero per niente un caso raro in quell’Italia che fu, l’anno dello sbarco sulla luna e dello sceneggiato televisivo che ha riscosso il maggior indice di ascolto di tutti i tempi in queste contrade, sedici milioni e mezzo di telespettatori di media (altro che Elisa di Rivombrosa).
Due parole sulla storia. Regia del mitico Anton Giulio Majano, autore di opere mai dimenticate come “La cittadella” o “Delitto e castigo”. Il giovane Dick Shelton (l’attore Aldo Reggiani) è dibattuto fra le avverse fazioni degli York e dei Lancaster al tempo della Guerra delle Due Rose in Inghilterra. La bella e ribelle Joan Sedley (Loretta Goggi), si traveste da uomo per sfuggire a un matrimonio non voluto. Battaglie, tradimenti, eroismi, passaggi segreti, intrighi e briganti della foresta fautori della lotta alla tirannia.
Quando si parla della “Freccia nera”, ci sono molte cose che sei obbligato a dire. E le devi dire nell’ordine che segue.
Devi confessare che all’epoca eri innamorato follemente di Loretta Goggi (amore che continua tuttora quando la rivedi in televisione), anche se tutti ti consideravano un poppante a cui regalare odiose caramelle alla fragola. In questo tuo delicato sentimento eri in buona compagnia, perché qualsiasi individuo maschile dotato di raziocinio non poteva evitare di sognare di trovarsi in compagnia della Joan Sedley travestita da maschio (e di difenderla dai molti pericoli di cui abbondava la tumultuosa Inghilterra del Quattrocento). Inoltre ritagliavi le immagini della dolce Loretta diciassettenne da qualsivoglia giornale e rivista di gossip alla “Grand Hotel” e sognavi di cavalcare con lei in tenebrose foreste medievali, anche se l’unica volta che avevi visto un cavallo dal vero ti aveva fatto una paura mica da ridere.
Seconda riflessione obbligata: il tuo desiderio spasmodico di impugnare una spada vera e enorme con queste mani vibranti di emozione. La spada vera e enorme serviva per essere brandita in groppa a un destriero nella tua mente, sotto un’armatura di cotta di maglia, con tanto di stendardo di York o Lancaster (pur avendo seguìto lo sceneggiato con devozione e chiesto lumi agli adulti, non riuscivi mai a capire quale fosse la Rosa dei buoni, se quella rossa o quella nera, ma tanto non aveva importanza). Il desiderio di menare fendenti o stoccate ai malvagi diventava necessità insopprimibile quando assistevi alla sigla iniziale dello sceneggiato, da non confondersi con la canzone finale dei Fratelli della Foresta. La sigla iniziale era un travolgente motivo epico composto dal valoroso maestro Riz Ortolani, accompagnato da scene di cavalieri medievali che si affrontavano a viso aperto tra castelli in fiamme e sfondi di devastazione bellica. Peraltro il motivo di Ortolani a un tratto deviava magistralmente dal registro epico-guerresco a quello romantico, inducendoti senza indugio a rinfoderare spade e sogni di gloria e a cercare con gli occhi una figura femminile capace di farti palpitare il cuore.
Poiché la possibilità di procurarti una vera lama medievale era piuttosto remota per te ragazzino in calzoncini corti di un’Italia lontana, eri costretto a ripiegare su una spada di legno, costruita con amore e soprattutto con l'aiuto dei tuoi amichetti più portati ai lavori manuali. Ovviamente i tuoi amici avevano già una spada analoga, ben più solida della tua, forgiata con robuste assi di legno sottratte ai padri falegnami, piallata e rifinita con cura, ed erano ansiosi di affrontarti in un duello all’ultimo sangue. Tale duello era preceduto da almeno mezz’ora di dispute su chi avrebbe dovuto interpretare la parte dell'ammirato Dick Shelton (il perdente della disputa, in genere era quello con l’arma migliore che si sentiva in vena di magnanimità verso i disgraziati forniti di mazze di scopa semibruciate, ripiegava sulla figura del collaudato Ivanhoe).
La terza e ultima considerazione a cui sei costretto parlando della “Freccia nera” televisiva (ce ne sono da fare altre, ma quelle almeno sono frutto di una tua libera scelta) è la inaudita, impressionante bravura dei Cattivi di quello sceneggiato. A memoria d’uomo non si è mai vista una storia televisiva con cattivi tanto ispirati e convincenti. Prima di tutto c’e Arnoldo Foà nella parte di Daniel Brackley, signorotto inglese pronto a tradire e a uccidere chiunque per sete di potere (“vende” in matrimonio anche la povera Loretta Goggi). Foà ha tra l’altro fatto uccidere il padre di Aldo Reggiani, che ignaro del delitto gli è fedele servitore. Che dire del machiavellico Arnoldo? Magistrale. Indimenticabili i suoi ghigni, soprattutto unici i suoi inarcamenti di sopracciglia e quelle sue mimiche facciali così convincenti da farti credere che la malvagità era una componente naturale della vita. Foà recitò così bene la parte del cattivo da essere odiato da una generazione di telespettatori quasi come certi “fetienti” della sceneggiata napoletana.
Eppure anche il bravissimo Arnoldo trovò dei competitori agguerriti nel suo stesso cast. Prima di tutto Adalberto Maria Merli nel ruolo del sanguinario e gobbo duca di Gloucester(Rosa Rossa o Rosa Nera? Boh, vattelo a ricordare). Merli esibiva un sguardo diabolico perfino superiore a quello di Foà e uccideva, a differenza del personaggio di Daniel Brackley, per il semplice gusto di farlo (impressionante il modo in cui trafigge a sangue freddo alcuni nemici ormai vinti e imploranti grazia).
Non c’è due senza tre, ecco ancora un valente attore nella fazione dei cattivi, ossia il caratterista Alberto Terrani nel ruolo di Lord Shoreby, l’ultimo pretendente di Loretta-Joan, il quale dà un’interpretazione della cattiveria più tendente al frivolo e alla mondanità che alla crudeltà pura e semplice. Basta così? No, c’è posto anche per Tino Bianchi (sir Olivier, vescovo corrotto) e Leonardo Severini (Bennet Hatch), ossia i complici delle malefatte giovanili del terribile Foà, che a differenza di quest’ultimo sono dilaniati dai sensi di colpa (all’epoca questa sfumatura psicologica era parecchio dura da mandare giù: uno o è cattivo o non lo è, si diceva un certo ragazzino mangiatore di caramelle, e se lo è come fa a provare rimorso per le sue malefatte?)
Sono le parole di una delle sigle televisive più amate e cantate di tutti i tempi, almeno in questo paese. All’epoca la stragrande maggioranza della popolazione italiana, comprese anziane ultraottantenni con almeno due infarti alle spalle e mocciosi piagnucolosi che a stento dicono mamma, sapevano citare almeno un verso di quel trascinante motivo. Io conoscevo tutta la canzone da cima a fondo, inclusi i fischi e l’epico “la-la-la” del coro dei briganti della foresta, e non ero per niente un caso raro in quell’Italia che fu, l’anno dello sbarco sulla luna e dello sceneggiato televisivo che ha riscosso il maggior indice di ascolto di tutti i tempi in queste contrade, sedici milioni e mezzo di telespettatori di media (altro che Elisa di Rivombrosa).
Due parole sulla storia. Regia del mitico Anton Giulio Majano, autore di opere mai dimenticate come “La cittadella” o “Delitto e castigo”. Il giovane Dick Shelton (l’attore Aldo Reggiani) è dibattuto fra le avverse fazioni degli York e dei Lancaster al tempo della Guerra delle Due Rose in Inghilterra. La bella e ribelle Joan Sedley (Loretta Goggi), si traveste da uomo per sfuggire a un matrimonio non voluto. Battaglie, tradimenti, eroismi, passaggi segreti, intrighi e briganti della foresta fautori della lotta alla tirannia.
Quando si parla della “Freccia nera”, ci sono molte cose che sei obbligato a dire. E le devi dire nell’ordine che segue.
Devi confessare che all’epoca eri innamorato follemente di Loretta Goggi (amore che continua tuttora quando la rivedi in televisione), anche se tutti ti consideravano un poppante a cui regalare odiose caramelle alla fragola. In questo tuo delicato sentimento eri in buona compagnia, perché qualsiasi individuo maschile dotato di raziocinio non poteva evitare di sognare di trovarsi in compagnia della Joan Sedley travestita da maschio (e di difenderla dai molti pericoli di cui abbondava la tumultuosa Inghilterra del Quattrocento). Inoltre ritagliavi le immagini della dolce Loretta diciassettenne da qualsivoglia giornale e rivista di gossip alla “Grand Hotel” e sognavi di cavalcare con lei in tenebrose foreste medievali, anche se l’unica volta che avevi visto un cavallo dal vero ti aveva fatto una paura mica da ridere.
Seconda riflessione obbligata: il tuo desiderio spasmodico di impugnare una spada vera e enorme con queste mani vibranti di emozione. La spada vera e enorme serviva per essere brandita in groppa a un destriero nella tua mente, sotto un’armatura di cotta di maglia, con tanto di stendardo di York o Lancaster (pur avendo seguìto lo sceneggiato con devozione e chiesto lumi agli adulti, non riuscivi mai a capire quale fosse la Rosa dei buoni, se quella rossa o quella nera, ma tanto non aveva importanza). Il desiderio di menare fendenti o stoccate ai malvagi diventava necessità insopprimibile quando assistevi alla sigla iniziale dello sceneggiato, da non confondersi con la canzone finale dei Fratelli della Foresta. La sigla iniziale era un travolgente motivo epico composto dal valoroso maestro Riz Ortolani, accompagnato da scene di cavalieri medievali che si affrontavano a viso aperto tra castelli in fiamme e sfondi di devastazione bellica. Peraltro il motivo di Ortolani a un tratto deviava magistralmente dal registro epico-guerresco a quello romantico, inducendoti senza indugio a rinfoderare spade e sogni di gloria e a cercare con gli occhi una figura femminile capace di farti palpitare il cuore.
Poiché la possibilità di procurarti una vera lama medievale era piuttosto remota per te ragazzino in calzoncini corti di un’Italia lontana, eri costretto a ripiegare su una spada di legno, costruita con amore e soprattutto con l'aiuto dei tuoi amichetti più portati ai lavori manuali. Ovviamente i tuoi amici avevano già una spada analoga, ben più solida della tua, forgiata con robuste assi di legno sottratte ai padri falegnami, piallata e rifinita con cura, ed erano ansiosi di affrontarti in un duello all’ultimo sangue. Tale duello era preceduto da almeno mezz’ora di dispute su chi avrebbe dovuto interpretare la parte dell'ammirato Dick Shelton (il perdente della disputa, in genere era quello con l’arma migliore che si sentiva in vena di magnanimità verso i disgraziati forniti di mazze di scopa semibruciate, ripiegava sulla figura del collaudato Ivanhoe).
La terza e ultima considerazione a cui sei costretto parlando della “Freccia nera” televisiva (ce ne sono da fare altre, ma quelle almeno sono frutto di una tua libera scelta) è la inaudita, impressionante bravura dei Cattivi di quello sceneggiato. A memoria d’uomo non si è mai vista una storia televisiva con cattivi tanto ispirati e convincenti. Prima di tutto c’e Arnoldo Foà nella parte di Daniel Brackley, signorotto inglese pronto a tradire e a uccidere chiunque per sete di potere (“vende” in matrimonio anche la povera Loretta Goggi). Foà ha tra l’altro fatto uccidere il padre di Aldo Reggiani, che ignaro del delitto gli è fedele servitore. Che dire del machiavellico Arnoldo? Magistrale. Indimenticabili i suoi ghigni, soprattutto unici i suoi inarcamenti di sopracciglia e quelle sue mimiche facciali così convincenti da farti credere che la malvagità era una componente naturale della vita. Foà recitò così bene la parte del cattivo da essere odiato da una generazione di telespettatori quasi come certi “fetienti” della sceneggiata napoletana.
Eppure anche il bravissimo Arnoldo trovò dei competitori agguerriti nel suo stesso cast. Prima di tutto Adalberto Maria Merli nel ruolo del sanguinario e gobbo duca di Gloucester(Rosa Rossa o Rosa Nera? Boh, vattelo a ricordare). Merli esibiva un sguardo diabolico perfino superiore a quello di Foà e uccideva, a differenza del personaggio di Daniel Brackley, per il semplice gusto di farlo (impressionante il modo in cui trafigge a sangue freddo alcuni nemici ormai vinti e imploranti grazia).
Non c’è due senza tre, ecco ancora un valente attore nella fazione dei cattivi, ossia il caratterista Alberto Terrani nel ruolo di Lord Shoreby, l’ultimo pretendente di Loretta-Joan, il quale dà un’interpretazione della cattiveria più tendente al frivolo e alla mondanità che alla crudeltà pura e semplice. Basta così? No, c’è posto anche per Tino Bianchi (sir Olivier, vescovo corrotto) e Leonardo Severini (Bennet Hatch), ossia i complici delle malefatte giovanili del terribile Foà, che a differenza di quest’ultimo sono dilaniati dai sensi di colpa (all’epoca questa sfumatura psicologica era parecchio dura da mandare giù: uno o è cattivo o non lo è, si diceva un certo ragazzino mangiatore di caramelle, e se lo è come fa a provare rimorso per le sue malefatte?)
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