sabato 21 luglio 2007

Syriana


Ho visto il film “Syriana”, in verità ne ho visto solo un tempo, ma credo che il mio giudizio non cambierà anche quando vedrò il resto. Che film è? Non è fatto male. Anzi, credo che sia stato scritto da persone competenti e capaci. Ma credo che queste persone abbiano compiuto un grave errore di impostazione. Probabilmente questi valenti sceneggiatori si sono riuniti attorno a un tavolo e si sono detti, magari davanti a qualche buon drink tipico della Hollywood dei bravi clintoniani con villa a Malibu: “Ora facciamo un film che fa riflettere. Un film di denuncia. Lo facciamo sotto forma di thriller così la gente viene a vederlo, ma ciò che vogliamo è fare pensare”. Questo a mio avviso è un errore di impostazione così grave che nemmeno una valida sceneggiatura può rimediarvi. Quando fai un film o scrivi un libro dovresti semplicemente pensare di raccontare una storia. Una storia che possa avvincere lo spettatore, con personaggi in cui ci si possa identificare. Se poi tu creatore della storia dopo aver creato questo racconto avvincente sei capace pure di far riflettere, di informare su un particolare aspetto spiacevole della società umana o di fare indignare, tanto di guadagnato. Ma il tuo obiettivo deve essere la storia avvincente con un protagonista capace di suscitare la simpatia del pubblico.
Cosa è accaduto invece? Prima di tutto il racconto risulta terribilmente spezzetato, ci sono almeno cinque punti di vista diversi, e ridurre i punti di vista è uno dei primi consigli che ti danno i manuali di scrittura creativa (Clooney, Damon, un ragazzo pakistano, il principe ereditario di un emirato arabo e una quantità di altri personaggi minori). Sei confuso; non hai il tempo di abituarti a seguire le vicende di un personaggio che ecco uscirne fuori un altro, magari pure poco interessante. Inoltre la visione è terribilmente appesantita da interminabili dialoghi in arabo con sottotitoli che alla lunga ti annoiano. Il ritmo lento non ti aiuta ad avere fiducia nel film e la faccia da Bourne Identity di Matt Damon porta scritto in fronte, alla faccia qualsiasi velleità di film-denuncia: “Qui Hollywood, la fabbrica della finzione”. Molto meglio mi è sembrato Clooney, sobrio e parco di parole, ma anche lui relegato nel ruolo di uno di questi eroi del sottosuolo che vanno di moda adesso che ti strappano più sbadigli che esclamazioni ammirate. Il risultato è che il film, per come è stato impostato, è di difficile visione. Per dirla tutta, annoia. Annoia con garbo, senza ucciderti, ma non ti fa battere il cuore. Ora mi vado a vedere il secondo tempo, ma se mi rompono le scatole ancora con quei lunghi dialoghi in arabo prometto che chiudo (fatti non fummo per leggere sottotitoli, almeno qui in Italia).

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