
Signore e signori, ecco a voi John Ford. Non andate via, signore e signori, perché abbiamo pure un altro e più famoso John, e cioè il monumentale, non solo di fisico, Wayne.
Non ci serve nient’altro. Abbiamo tutto ciò che ci serve per essere felici. Per godere, per portare la nostra anima sognatrice all’orgasmo. Abbiamo gli sterminati paesaggi del selvaggio West, la suggestione unica dei grandi spazi e dei fitti silenzi della Monumental Valley prediletta da quello dei nostri due John che si dedica alla regia. Abbiamo il profumo della prateria e delle distese innevate del grande Nord (e della libertà insita in questi due odori dolcissimi), che arriva a noi anche dalle due dimensioni del grande schermo.
E abbiamo questo straordinario eroe in cui immedesimarci. Ossia il gigantesco, sprezzante, burbero, cinico John Wayne/Ethan, che darà corpo alla nostra ansia di trasformarci in protagonisti di vicende memorabili. Va tutto bene così? No, non va ancora bene. C’è bisogno ancora di qualche ritocco per godere al meglio della nostra avventura Perché non sta bene che il nostro modello sullo schermo abbia solo qualità positive. Che diavolo, siamo spettatori moderni e smaliziati! E allora che il nostro eroe sia anche un po’ razzista. Che il nostro eroe sia accecato da un odio verso gli indiani che lo porta a infierire sui loro cadaveri, affinché senza gli occhi le anime dei suoi nemici mortali non trovino la strada per arrivare a Manitù. Sì, un pizzico di razzismo antipellerossa (l’unico indiano buono è quello morto) va bene nel nostro eroe Ethan/Wayne. Aumenta la sua complessità e credibilità psicologica. In tutti i casi già sappiamo – siamo spettatori smaliziati non solo a parole - che prima della fine dell’avventura a due dimensioni il nostro Ethan si sarà redento dal cinismo e ancor più dal razzismo. E ci accompagnerà alla scritta finale mentre ci sentiamo il cuore leggero e grato.
Ho rivisto poche sere fa uno dei capolavori western di John Ford, Sentieri Selvaggi del 1956. Non il film del maestro del cinema che preferisco in assoluto (Ombre rosse e Il massacro di Forte Apache mi piacquero di più, ricordo; senza scordare il formidabile e modernissimo Uomo che uccise Liberty Valance o gli ugualmente eccezionali Cavalieri del Nord Ovest, Un uomo tranquillo o La carovana dei mormoni: ma qui è meglio smettere o non si finirebbe mai di citare film del genio del western). In ogni caso è una storia o meglio un‘avventura come ce ne sono poche. Tra l’altro si tratta della pellicola fordiana in assoluto preferita dai critici, quelli dotti e qualche volta con la puzza sotto il naso (probabilmente a causa della già accennata maggiore complessità psicologica rispetto a film precedenti e del superamento di una visione manichea seppur spettacolare del West). In una recente classifica stilata dai maggiori critici cinematografici, Sentieri Selvaggi si è classificato al quarto posto nei film di tutti i tempi.
Abbiamo tempo solo per la trama e per qualche considerazione finale. 1868, il disilluso Ethan, reduce alla guerra civile, è ospite del fratello nel periodo di tempo in cui questi e la sua famiglia sono trucidati dagli indiani. Sola la più piccola delle bambine sopravvive, rapita dai razziatori (sono i terribili Comanche). Ethan, aiutato dal figlio adottivo del fratello morto, Martin, cerca la superstite per mari e monti per dieci lunghi anni. Ritroverà la nipote quando, ormai adulta, sarà diventata un’indiana. Indimenticabile la scena finale, quella in cui John Wayne insegue a cavallo la nipote ormai corrotta ai suoi occhi dalla prolungata promiscuità con i pellerossa (trattasi della mitica e sfortunata Nathalie Wood)). Tutti pensiamo che voglia ucciderla, come ha già dichiarato di voler fare in altre parti del film. Invece all’ultimo momento John cambia parere e carica con affetto la Wood sul cavallo e dice qualcosa tipo “Si torna a casa”.
Cosa mi è rimasto impresso del film? Soprattutto la scena iniziale. C’è la porta di una tipica abitazione di legno che si apre e… ed ecco che il West ti entra in casa con le straordinarie distese della Monumental Valley. Cioè due metri fuori della casa, non a duecento metri o a due chilometri, già si respira aria di libertà. Già ti pare quasi di vedere gli indiani, ancora ostili nel cinema di quegli anni, o i bisonti… anche se i veri bisonti nel film si vedono solo quando le ricerche di Ethan e del nipote li porteranno molto più a Nord (a quel punto il truce Wayne uccide gratuitamente parecchi di quei bestioni per il solo scopo di affamare gli indiani: pensava, correttamente e in anticipo sui tempi, di annientare l'odiata razza dei pellerossa togliendole la principale fonte di sussistenza).
Efficacissimo lo scorbutico personaggio disegnato da Wayne. Le sue risposte sprezzanti al povero nipote che ha la sventura di accompagnarlo nella ricerca colgono sempre nel segno.
Ad armonizzare trama e personaggi, c’è tutto l’armamentario del West reso celebre da Ford. Le canzoni popolari, le briose donne in sottana che mettono in riga omaccioni grandi il doppio di loro, l’intermezzo comico assicurato dal mezzo scemo ma valoroso Mosè o dal Reverendo/capitano dell’esercito antagonista di Ethan. Ciliegina sulla torta il duello rusticano a colpi di sinceri cazzotti per decidere a chi debba andare in sposa la fanciulla fordiana già in abito nuziale.
Sul versante degli indiani, parecchie le note positive. Prima di tutto i nativi americani, come si dice adesso, sono visti in modo ben più articolato rispetto al passato. Gli indiani sono spinti da solide ragioni che spiegano, se non giustificano, certi loro eccidi indiscriminati. Hanno una loro cultura e personalità. Parlano di meno come i negri dei tempi di Via col vento e sembrano meno fumettistici dei loro colleghi sia pure efficacissimi di Ombre rosse. Pregevole pure la presenza di veri attori o comparse pellerossa, punto di rottura con certi indiani di aspetto mitteleuropeo che si vedevano nei film dell’epoca. Una delle poche note stonate in questo campo è che il capo dei Comanche razziatori, Scar/Scout, ha la faccia di uno che gli indiani li ha visti solo al circo.
Il film finisce dove era iniziato. Con lo straordinario uscio che si chiude sulla prateria. Tac, buio. L’avventura è finita.
Non ci serve nient’altro. Abbiamo tutto ciò che ci serve per essere felici. Per godere, per portare la nostra anima sognatrice all’orgasmo. Abbiamo gli sterminati paesaggi del selvaggio West, la suggestione unica dei grandi spazi e dei fitti silenzi della Monumental Valley prediletta da quello dei nostri due John che si dedica alla regia. Abbiamo il profumo della prateria e delle distese innevate del grande Nord (e della libertà insita in questi due odori dolcissimi), che arriva a noi anche dalle due dimensioni del grande schermo.
E abbiamo questo straordinario eroe in cui immedesimarci. Ossia il gigantesco, sprezzante, burbero, cinico John Wayne/Ethan, che darà corpo alla nostra ansia di trasformarci in protagonisti di vicende memorabili. Va tutto bene così? No, non va ancora bene. C’è bisogno ancora di qualche ritocco per godere al meglio della nostra avventura Perché non sta bene che il nostro modello sullo schermo abbia solo qualità positive. Che diavolo, siamo spettatori moderni e smaliziati! E allora che il nostro eroe sia anche un po’ razzista. Che il nostro eroe sia accecato da un odio verso gli indiani che lo porta a infierire sui loro cadaveri, affinché senza gli occhi le anime dei suoi nemici mortali non trovino la strada per arrivare a Manitù. Sì, un pizzico di razzismo antipellerossa (l’unico indiano buono è quello morto) va bene nel nostro eroe Ethan/Wayne. Aumenta la sua complessità e credibilità psicologica. In tutti i casi già sappiamo – siamo spettatori smaliziati non solo a parole - che prima della fine dell’avventura a due dimensioni il nostro Ethan si sarà redento dal cinismo e ancor più dal razzismo. E ci accompagnerà alla scritta finale mentre ci sentiamo il cuore leggero e grato.
Ho rivisto poche sere fa uno dei capolavori western di John Ford, Sentieri Selvaggi del 1956. Non il film del maestro del cinema che preferisco in assoluto (Ombre rosse e Il massacro di Forte Apache mi piacquero di più, ricordo; senza scordare il formidabile e modernissimo Uomo che uccise Liberty Valance o gli ugualmente eccezionali Cavalieri del Nord Ovest, Un uomo tranquillo o La carovana dei mormoni: ma qui è meglio smettere o non si finirebbe mai di citare film del genio del western). In ogni caso è una storia o meglio un‘avventura come ce ne sono poche. Tra l’altro si tratta della pellicola fordiana in assoluto preferita dai critici, quelli dotti e qualche volta con la puzza sotto il naso (probabilmente a causa della già accennata maggiore complessità psicologica rispetto a film precedenti e del superamento di una visione manichea seppur spettacolare del West). In una recente classifica stilata dai maggiori critici cinematografici, Sentieri Selvaggi si è classificato al quarto posto nei film di tutti i tempi.
Abbiamo tempo solo per la trama e per qualche considerazione finale. 1868, il disilluso Ethan, reduce alla guerra civile, è ospite del fratello nel periodo di tempo in cui questi e la sua famiglia sono trucidati dagli indiani. Sola la più piccola delle bambine sopravvive, rapita dai razziatori (sono i terribili Comanche). Ethan, aiutato dal figlio adottivo del fratello morto, Martin, cerca la superstite per mari e monti per dieci lunghi anni. Ritroverà la nipote quando, ormai adulta, sarà diventata un’indiana. Indimenticabile la scena finale, quella in cui John Wayne insegue a cavallo la nipote ormai corrotta ai suoi occhi dalla prolungata promiscuità con i pellerossa (trattasi della mitica e sfortunata Nathalie Wood)). Tutti pensiamo che voglia ucciderla, come ha già dichiarato di voler fare in altre parti del film. Invece all’ultimo momento John cambia parere e carica con affetto la Wood sul cavallo e dice qualcosa tipo “Si torna a casa”.
Cosa mi è rimasto impresso del film? Soprattutto la scena iniziale. C’è la porta di una tipica abitazione di legno che si apre e… ed ecco che il West ti entra in casa con le straordinarie distese della Monumental Valley. Cioè due metri fuori della casa, non a duecento metri o a due chilometri, già si respira aria di libertà. Già ti pare quasi di vedere gli indiani, ancora ostili nel cinema di quegli anni, o i bisonti… anche se i veri bisonti nel film si vedono solo quando le ricerche di Ethan e del nipote li porteranno molto più a Nord (a quel punto il truce Wayne uccide gratuitamente parecchi di quei bestioni per il solo scopo di affamare gli indiani: pensava, correttamente e in anticipo sui tempi, di annientare l'odiata razza dei pellerossa togliendole la principale fonte di sussistenza).
Efficacissimo lo scorbutico personaggio disegnato da Wayne. Le sue risposte sprezzanti al povero nipote che ha la sventura di accompagnarlo nella ricerca colgono sempre nel segno.
Ad armonizzare trama e personaggi, c’è tutto l’armamentario del West reso celebre da Ford. Le canzoni popolari, le briose donne in sottana che mettono in riga omaccioni grandi il doppio di loro, l’intermezzo comico assicurato dal mezzo scemo ma valoroso Mosè o dal Reverendo/capitano dell’esercito antagonista di Ethan. Ciliegina sulla torta il duello rusticano a colpi di sinceri cazzotti per decidere a chi debba andare in sposa la fanciulla fordiana già in abito nuziale.
Sul versante degli indiani, parecchie le note positive. Prima di tutto i nativi americani, come si dice adesso, sono visti in modo ben più articolato rispetto al passato. Gli indiani sono spinti da solide ragioni che spiegano, se non giustificano, certi loro eccidi indiscriminati. Hanno una loro cultura e personalità. Parlano di meno come i negri dei tempi di Via col vento e sembrano meno fumettistici dei loro colleghi sia pure efficacissimi di Ombre rosse. Pregevole pure la presenza di veri attori o comparse pellerossa, punto di rottura con certi indiani di aspetto mitteleuropeo che si vedevano nei film dell’epoca. Una delle poche note stonate in questo campo è che il capo dei Comanche razziatori, Scar/Scout, ha la faccia di uno che gli indiani li ha visti solo al circo.
Il film finisce dove era iniziato. Con lo straordinario uscio che si chiude sulla prateria. Tac, buio. L’avventura è finita.
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