
Charlie Chaplin sono io.
Sono io quando più straccione che mai per strada raccoglie con nonchalance principesca un mozzicone di sigaretta che però non fuma subito, ma conserva per i momenti peggiori (peggiori di quello?).
Sono io quando viene sbeffeggiato dai monelli strilloni di giornale, che gli tirano pietre come se non fosse già abbastanza disgraziato e malridotto così com’è.
Sono io quando nel profondo Nord dell’Alaska sbocconcella un suo scarpone lesso come se fosse una leccornia, perché in attesa di trovare l’oro non c’è niente di meglio che buttare giù un pranzetto a base di buchi di suola, pepati e salati come si conviene.
Io quando è abbastanza pazzo da andare in galera per racimolare i soldi con cui ridare la vista alla fioraia cieca di cui è innamorato.
Io quando si presenta a Giorgia, l’entraîneuse della Corsa all’Oro… e quando quella continua a spettegolare con una sua amica come se fosse invisibile, io quando pare finalmente che lei gli parli con amore e gli faccia gli occhi dolci, anche se poi viene fuori che parole innamorate e occhi dolci erano diretti al fusto faccia di bronzo di dietro.
Io quando passa la notte di Capodanno da solo nella sua catapecchia nel ghiaccio perché la scellerata Giorgia non si presenta all’appuntamento come promesso (non era una vera promessa, ma solo una presa in giro). Chaplin per distrarsi dalla delusione organizza una magistrale danza con forchette e panini in puro stile vaudeville? E io, si sa, sono con lui su tutta la linea.
Chaplin usa la lussuosa macchina presa in prestito dal miliardario - suo amico da ubriaco e suo disgustato nemico da sobrio - per recuperare cicche di sigaretta dal marciapiede? E io sono con lui.
Chaplin si nasconde dietro l’arbitro di boxe per sfuggire al pugile che affronta per amore della solita fioraia cieca? E siamo sempre in due a farlo e a inventare ogni trucchetto per non farci massacrare dal nostro avversario.
Eppure c’è un momento in cui sono più che mai vicino all’Omino più famoso della storia del cinema. E’ quando si incammina, straccione e miserabile, ma accompagnato dalla dignità di uno spirito libero, per una lunga strada gravida di promesse, con al fianco l’Amore sotto forma della donna della tua vita. Ecco, qui io e il Vagabondo siamo la stessa persona, qui la sua ombra è la mia.
Charlot sono io, Charlot siamo noi. Tutti noi che non abbiamo smesso di sognare. Tutti noi che prendiamo una mazza di scopa e la facciamo volteggiare come se fosse il bastone di un duca di altri tempi. Noi che poi ridiamo delle nostre fantasie su quella gentaglia, perché duchi, principi e riccastri moderni, in fondo, ci fanno un baffo.
Di recente ho rivisto due film, cioè due capolavori, dell’eroe cinematografico che amo da quando la mia età non aveva ancora raggiunto la doppia cifra. Sono La febbre dell’oro del 1925 e Luci della città del 1931. Li ho trovati, specie il primo, opere straordinarie, piene di trovate e gag da cui il cinema attinge da tre quarti di secolo senza freno (la gag della casa in bilico sul burrone in Alaska è stata ripresa con poche varianti da diversi film con i dinosauri, e Paolo Villaggio ha usato in quasi tutti i suoi film lo sketch del mangiare di nascosto a qualcuno che ci sorveglia ostile). Tuttavia c’è una cosa che quasi nessun cineasta moderno potrà copiare dal grande Chaplin e cioè la poesia infinita che sapeva infondere nelle sue pellicole, la grazia di un gesto, la profondità di uno sguardo mentre sopraggiunge la parola “Fine”
Sono io quando più straccione che mai per strada raccoglie con nonchalance principesca un mozzicone di sigaretta che però non fuma subito, ma conserva per i momenti peggiori (peggiori di quello?).
Sono io quando viene sbeffeggiato dai monelli strilloni di giornale, che gli tirano pietre come se non fosse già abbastanza disgraziato e malridotto così com’è.
Sono io quando nel profondo Nord dell’Alaska sbocconcella un suo scarpone lesso come se fosse una leccornia, perché in attesa di trovare l’oro non c’è niente di meglio che buttare giù un pranzetto a base di buchi di suola, pepati e salati come si conviene.
Io quando è abbastanza pazzo da andare in galera per racimolare i soldi con cui ridare la vista alla fioraia cieca di cui è innamorato.
Io quando si presenta a Giorgia, l’entraîneuse della Corsa all’Oro… e quando quella continua a spettegolare con una sua amica come se fosse invisibile, io quando pare finalmente che lei gli parli con amore e gli faccia gli occhi dolci, anche se poi viene fuori che parole innamorate e occhi dolci erano diretti al fusto faccia di bronzo di dietro.
Io quando passa la notte di Capodanno da solo nella sua catapecchia nel ghiaccio perché la scellerata Giorgia non si presenta all’appuntamento come promesso (non era una vera promessa, ma solo una presa in giro). Chaplin per distrarsi dalla delusione organizza una magistrale danza con forchette e panini in puro stile vaudeville? E io, si sa, sono con lui su tutta la linea.
Chaplin usa la lussuosa macchina presa in prestito dal miliardario - suo amico da ubriaco e suo disgustato nemico da sobrio - per recuperare cicche di sigaretta dal marciapiede? E io sono con lui.
Chaplin si nasconde dietro l’arbitro di boxe per sfuggire al pugile che affronta per amore della solita fioraia cieca? E siamo sempre in due a farlo e a inventare ogni trucchetto per non farci massacrare dal nostro avversario.
Eppure c’è un momento in cui sono più che mai vicino all’Omino più famoso della storia del cinema. E’ quando si incammina, straccione e miserabile, ma accompagnato dalla dignità di uno spirito libero, per una lunga strada gravida di promesse, con al fianco l’Amore sotto forma della donna della tua vita. Ecco, qui io e il Vagabondo siamo la stessa persona, qui la sua ombra è la mia.
Charlot sono io, Charlot siamo noi. Tutti noi che non abbiamo smesso di sognare. Tutti noi che prendiamo una mazza di scopa e la facciamo volteggiare come se fosse il bastone di un duca di altri tempi. Noi che poi ridiamo delle nostre fantasie su quella gentaglia, perché duchi, principi e riccastri moderni, in fondo, ci fanno un baffo.
Di recente ho rivisto due film, cioè due capolavori, dell’eroe cinematografico che amo da quando la mia età non aveva ancora raggiunto la doppia cifra. Sono La febbre dell’oro del 1925 e Luci della città del 1931. Li ho trovati, specie il primo, opere straordinarie, piene di trovate e gag da cui il cinema attinge da tre quarti di secolo senza freno (la gag della casa in bilico sul burrone in Alaska è stata ripresa con poche varianti da diversi film con i dinosauri, e Paolo Villaggio ha usato in quasi tutti i suoi film lo sketch del mangiare di nascosto a qualcuno che ci sorveglia ostile). Tuttavia c’è una cosa che quasi nessun cineasta moderno potrà copiare dal grande Chaplin e cioè la poesia infinita che sapeva infondere nelle sue pellicole, la grazia di un gesto, la profondità di uno sguardo mentre sopraggiunge la parola “Fine”
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