sabato 21 luglio 2007

Peggy Sue si è sposata

Peggy Sue si è sposata uscì più o meno nello stesso periodo di Ritorno al futuro (metà degli anni Ottanta) e trattava all’incirca dello stesso argomento, un viaggio di circa 25 anni nel passato. Probabilmente è stato visto dai più come un clone delle avventure di Doc e Marty McFly ed è ciò che ha danneggiato questo splendido film di Francis Ford Coppola, pieno di atmosfere malinconiche e nostalgiche, con una colonna sonora azzeccatissima.
Kathleen Turner (Peggy Sue) è una donna di 43 anni che nel pieno di una rimpatriata tra vecchi compagni di scuola ha un malore e si ritrova trasportata all’epoca del liceo, tra rock’n roll e Happy Days venati di profonda nostalgia. La novità del film è che La Turner recita con il suo viso da donna matura pure la parte da adolescente (gli altri personaggi dell’epoca la vedono come una normale teenager di fine anni Cinquanta), riuscendo così a far percepire meglio il contrasto tra le esperienze giovanili vissute da una mente adulta. Peggy Sue canta con trasporto in classe l’inno americano, ha una breve esperienza sentimentale con un compagno di classe “maledetto” da cui all’epoca era attratta, si commuove rivedendo i nonni morti, vive alcuni giorni da ragazza con una coscienza adulta. Tornata di nuovo al presente si riappacifica con il marito Nicolas Cage, probabilmente anche a causa dei cambiamenti stimolati in lei dal viaggio temporale.
Cosa faremmo se potessimo tornare nel passato disponendo delle nostre esperienze attuali? Probabilmente ci comporteremmo come la protagonista del film. Probabilmente ci divertiremmo molto più di quanto ci è capitato e quasi di certo indirizzeremmo la nostra vita futura su binari più confacenti alla nostra personalità.
Il titolo Peggy sue si è sposata è tratto da un successo di Buddy Holly, rock’n roller morto in un incidente aereo nel 1959.

Cinema erotico di Samperi


Malizia di Salvatore Samperi è probabilmente il titolo più rappresentativo del cinema erotico degli anni Settanta, perlomeno è quello che io ricordo con più simpatia. Ancora oggi ho la netta percezione che sia stato il film più eccitante che io abbia mai visto, anche se in realtà l’apice erotico della storia consisteva nello sbirciare sotto la gonna di Laura Antonelli quando saliva su una scala per spolverare i mobili.
La trama. Il vedovo Turi Ferro si innamora della sua cameriera Laura Antonelli, che accetterà la proposta di matrimonio del pretendente solo se i tre figli di lui saranno d’accordo. Tuttavia il secondo figlio Nino - il compianto e bravissimo Alessandro Momo, morto a vent'anni nel 74 e tra l’altro dirimpettaio di Samperi - dimostra poca attitudine a considerare la Antonelli come futura madre, mentre si industria al meglio per portarsela a letto o per coinvolgerla in giochi morbosi. Alla fine la cameriera sposa il vedovo, anche se i due figli grandi dell’uomo sono ben lungi dall’avere per lei sentimenti filiali.
Ricordo che ero ben distante dall'avere l'età per vedere quel film, anche quando giunse nelle terze visioni delle mie parti. Avevo una paura fottuta di essere rimandato indietro quando mi fossi presentato a comprare il biglietto nel cinema; non avrei potuto sopravvivere all’onta di essere considerato come l’ultimo dei mocciosi. Comunque il giorno fatidico mi mimetizzai in una fila di ragazzi vocianti, quasi tutti più grandi di me e cercai di passare per uno più adulto di ciò che ero. Ogni tanto vedevo qualche ragazzino imberbe che riusciva a passare lo sbarramento opposto dalla cassiera e dalla maschera all’entrata della sala di proiezione e mi dicevo che c’era speranza pure per me. Però poco dopo riflettevo che il film era vietato ai minori di diciotto anni, mentre avevo meno dell’età che serve per comprare il latte nelle canzoni di Gianni Morandi. In qualche modo arrivai davanti alla cassiera con la nitida percezione di avvampare per la vergogna e di apparire alla stregua di un lattante. Cercavo di non guardare negli occhi la cassiera come si fa con i professori a scuola per non farsi interrogare, ma con mia somma sorpresa quella non mi degnò nemmeno di uno sguardo. Ero così sollevato che lasciai tutto il resto di mancia alla maschera e fino al momento in cui mi sedetti nella sala del cinema temevo sempre che qualcuno mi gridasse dietro: dove crede di andare quel ragazzino?
Ho rivisto alcuni anni fa in televisione Malizia e mi è piaciuto. Chiaramente aveva perso molta della carica erotica che aveva trent’annii fa, ma alcune situazioni erano ancora intriganti ed eccitanti come poche, il che prova che non si deve sempre mostrare quintali di carne in movimento per generare erotismo. Una cosa che ho scoperto di recente è che la riuscitissima colonna sonora è stata composta nientemeno che da Fred Bongusto, la fotografia era di Vittorio Storaro. La scena più forte in assoluto è quando il protagonista Alessandro Momo palpeggia la vedova consolabile Angela Luce sul retro di una macchina, credo proprio al funerale del marito della Luce. Che altro? Molte attrici sensuali, quasi tutte di una certa età, dalla ricordata Angela Luce a alla stessa Antonelli. Un ottimo Pino Caruso nel ruolo di don Cirillo. Film notevole e bello, di qualità nettamente superiore alla classica commedia erotica di quegli anni.
Di Alessandro Momo ho visto pure Peccato veniale sempre di Salvatore Samperi (c’è un particolare incontro ravvicinato del quarto tipo con la solita Laura Antonelli) e l’ottimo Profumo di donna di Dino Risi (l’accoppiata Momo/Alessandro Gassman funziona molto meglio di quella del remake americano con Al Pacino). Rivedrei volentieri questi tre film.

Doppiaggio classico


Sul doppiaggio ci sono varie scuole di pensiero. E' vero che si doppia solo in Italia. In tutti i modi è un'arte pure quella; è opinione diffusa che Oreste Lionello, ad esempio, abbia migliorato Woody Allen e Ferruccio Amendola Sylvester Stallone. Le voci di un tempo erano molto più impostate e innaturali, ma suggestive al massimo (vedi doppiaggio di John Wayne o Gary Cooper, e che dire di quello di Jimmy Stewart, della Monroe o di Jerry Lewis?). Oggi si preferiscono voci più informali e vicine al parlare quotidiano, ma in alcune circostanze sciatte da morire: è il caso di una giovane attrice hollywoodiana che passa dalle parti di piratessa a quelle di classici della letteratura).
La mia idea è che il ridoppiaggio di vecchi film è né più né meno che un crimine. E' come mettere orribili infissi anodizzati alla finestra di un palazzo d'epoca. Anni fa tentarono di ridoppiare Via col vento per renderlo più attuale e politicamente corretto, con la negra Mamie che non diceva più "badrona" e fecero un disastro difficilmente uguagliabile. Ormai stanno ridoppiando pure film relativamente recenti come L'inferno di cristallo sempre con risultati pessimi. Perché ottengono tali disastri? Secondo me per due motivi principali: uno perché nessuna voce moderna può rendere giustizia alle atmosfere d'epoca; secondo perché quando ridanno le voci ai vecchi film  di solito non prendono i migliori doppiatori moderni, ma quelli di seconda o terza fila, aggiungendo danno al danno.

Il cinema catastrofico


Ho visto un film stasera che m ha divertito molto La tragedia del Poseidon, rifacimento di un notevole kolossal catastrofico degli anni 70 con Gene Hackman e Ernest Borgnine. Questo film era sicuramente inferiore all’originale dal punto di vista della psicologia dei personaggi e della storia in generale, ma ho potuto goderlo con effetti speciali per me irraggiungibili in passato (non è che disponga di un grande arsenale visivo: un onesto televisore 28 pollici Mivar, un lettore dvd pagato 30 euro e un paio di cassettine con sub-woofer pagate anch’esse 30 euro… ma vi assicuro che i risultati sono sorprendenti e del tutto soddisfacenti, almeno per le mie tasche). Stasera ho avuto quello che ho sempre cercato nel cinema, ossia l’avventura. Il cinema per me è rimasto ciò che era tanti anni fa, quando da ragazzo mi sedevo in qualche scomoda poltrona di un cinema di periferia e aspettavo che l’avventura iniziasse sullo schermo e mi risucchiasse in essa. Ovviamente qualcuno avrà notato che la trama affrontava una di quelle storie di sopravvivenza che prediligo.

Ti piace ballare?


Mio fratello mi ha portato un film, Ti piace ballare? con Antonio Banderas. L’ho visto stasera e mi è piaciuto, come mi accade spesso di recente con film musicali (non era comunque a livello di quel piccolo gioiello cinematografico che andava sotto il nome di “School of rock”, straordinario davvero l’attore di quel film, Jack Black). I film sul ballo mi piacciono quasi sempre, forse perché il ballo resta uno dei desideri inappagati della mia vita. Questo qui era una via di mezzo tra Dirty dancing (il mondo borghese dei figli di papà contrapposto a quello di strada, una gara di ballo che sembra proibitiva per i ragazzi dei bassifondi: anche se poi sappiamo fin dall’inizio che i nostri eroi si comporteranno alla grande) e la scuola con ragazzi difficili sul genere dell'antico film Il Seme dell’odio o del nostro Meri per sempre. 

Banderas (devo dire che mi è piaciuto) interpreta uno strano istruttore di balli da gara, dal tango al fox-trot, che cerca di salvare certi ragazzi pieni di problemi dal crimine e dalla galera insegnandogli il ballo. Banderas è ridicolo, apre le porte a ogni essere femminile che si trovi sulla sua strada, dice “signore” a certi mocciosi con la faccia da spacciatori o delinquenti, insomma è il classico insegnante idealista che si fa in quattro per aiutare i figli del ghetto. Sappiamo già dall’inizio che ci riuscirà, perché questo è l’esito obbligato di certe storie, ma sappiamo pure che ci piacerà quando vedremo neri e portoricani che nella gara di danza finale faranno vedere i sorci verdi a certi odiosi ballerini figli di papà.
La parte più originale del film è quando si mischia il rap con il tango ottenendone un miscuglio sonoro esplosivo e soprattutto quando i ragazzi inventano degli originali passi di danza per adattarsi a quella nuova musica.Perché cavolo nella mia scuola non si è mai presentato un insegnante come quello?

The prestige


Sono rimaste in sospeso le mie riflessioni su due film che ho visto di recente. Me la cavo in fretta, almeno spero. Il primo film non mi è piaciuto per niente. Mi è piaciuto così poco che mi ha indotto a fare un gesto che considero un’eresia, cioè premere il tasto dell’avanzamento veloce del lettore dvd. In genere cerco di morire sul campo, ma di non usare quel tasto maledetto. Stavolta l’ho fatto. Il film era The prestige con Hugh Jackman. Ci sono due giovani prestigiatori a cavallo tra Otto e Novecento che si odiano e cercano di danneggiarsi in ogni modo, specie quando uno dei due è in scena. Non è un film fatto male, ma mi agitava troppo e inoltre aveva la grave pecca di trasformare, a metà del film, in cattivo e perdente il personaggio in cui ti sei identificato (nel mio caso era Jackman).
La caratteristica del film è che ogni volta che sei in scena per fare un numero di prestidigitazione capita un incidente più o meno mortale. Ogni volta che partecipi al numero della vasca piena d’acqua in cui vieni sigillato, legato o incatenato puoi star certo che morirai. Se fai il numero della pistola con proiettili a salve, puoi scommettere che quella pistola sparerà sul serio. Ho capito subito che questo film sarebbe stato una fregatura. Da quando all’inizio della storia muore la moglie di Jackman nella solita vasca d’acqua perché il collega del marito le lega i polsi con un nodo troppo professionale. Ho azionato il tasto dell’avanzamento veloce perché il film non mi prendeva, anzi mi innervosiva, ma volevo vedere come finiva. Non dico il finale, ma posso dire che l’avevo previsto all’ottanta per cento. Il venti per cento che non avevo previsto era perfino peggio delle mie intuizioni. Dato che si è fatto tardi dell’altro film parleremo un’altra volta.

The departed


Eccoci a The departed di Martin Scorsese, con Leonardo Di Caprio e Jack Nicholson. Il solito decadente film metropolitano che va di moda adesso, che va di moda premiare con gli Oscar (Crash). Detesto questo tipo di film, tutto buio psicologico, con i cattivi che vincono, con tutti i protagonisti senza esclusione presi dalla paranoia, dal mal di vivere metropolitano, dalla droga a gogò o dagli psicofarmaci, con Nicholson che ghigna senza alcuna vergogna, nel più puro stile fumettistico alla “Shining”… e con tu che hai capito in che tipo di film fregatura ti sei cacciato, ma avendone visto già mezzo speri che, per un miracolo, lo stronzo di regista dedito al politicamente corretto sport della denuncia sociale non faccia vincere i cattivi su tutta la linea e che dia almeno un contentino ai buoni. Detesto vedere questo tipo di film, tutto ombre e denunce. Io mi sono seduto in poltrona a vedere un fottuto film che dura due ore e mezzo e pretendo, dico pretendo, che al termine del polpettone gangsterico che mi avete ammannito, i buoni con cui mi sono identificato vincano. Non rompetemi le palle con la denuncia sociale, voglio che il protagonista con cui mi sono identificato vinca e abbia successo, perché io stesso voglio vincere e avere successo, seppure tramite i limitati mezzi offerti dalla visione di un film. Il film cupi che segnalano le magagne esistenziali moderne vanno bene, ma dovrebbero dichiarare subito dove si va a parare, senza fregature.
A ridatece Gary Cooper, aridatece Humphrey Bogart, aridatece Indiana Jones e addirittura lo Schwarzy del “Terminator II”. A ridatece l’eroe senza macchia e senza paura (anzi con la macchia e con la paura), ma che non rimane crivellato di colpi nell’ultima scena. Bah.

Syriana


Ho visto il film “Syriana”, in verità ne ho visto solo un tempo, ma credo che il mio giudizio non cambierà anche quando vedrò il resto. Che film è? Non è fatto male. Anzi, credo che sia stato scritto da persone competenti e capaci. Ma credo che queste persone abbiano compiuto un grave errore di impostazione. Probabilmente questi valenti sceneggiatori si sono riuniti attorno a un tavolo e si sono detti, magari davanti a qualche buon drink tipico della Hollywood dei bravi clintoniani con villa a Malibu: “Ora facciamo un film che fa riflettere. Un film di denuncia. Lo facciamo sotto forma di thriller così la gente viene a vederlo, ma ciò che vogliamo è fare pensare”. Questo a mio avviso è un errore di impostazione così grave che nemmeno una valida sceneggiatura può rimediarvi. Quando fai un film o scrivi un libro dovresti semplicemente pensare di raccontare una storia. Una storia che possa avvincere lo spettatore, con personaggi in cui ci si possa identificare. Se poi tu creatore della storia dopo aver creato questo racconto avvincente sei capace pure di far riflettere, di informare su un particolare aspetto spiacevole della società umana o di fare indignare, tanto di guadagnato. Ma il tuo obiettivo deve essere la storia avvincente con un protagonista capace di suscitare la simpatia del pubblico.
Cosa è accaduto invece? Prima di tutto il racconto risulta terribilmente spezzetato, ci sono almeno cinque punti di vista diversi, e ridurre i punti di vista è uno dei primi consigli che ti danno i manuali di scrittura creativa (Clooney, Damon, un ragazzo pakistano, il principe ereditario di un emirato arabo e una quantità di altri personaggi minori). Sei confuso; non hai il tempo di abituarti a seguire le vicende di un personaggio che ecco uscirne fuori un altro, magari pure poco interessante. Inoltre la visione è terribilmente appesantita da interminabili dialoghi in arabo con sottotitoli che alla lunga ti annoiano. Il ritmo lento non ti aiuta ad avere fiducia nel film e la faccia da Bourne Identity di Matt Damon porta scritto in fronte, alla faccia qualsiasi velleità di film-denuncia: “Qui Hollywood, la fabbrica della finzione”. Molto meglio mi è sembrato Clooney, sobrio e parco di parole, ma anche lui relegato nel ruolo di uno di questi eroi del sottosuolo che vanno di moda adesso che ti strappano più sbadigli che esclamazioni ammirate. Il risultato è che il film, per come è stato impostato, è di difficile visione. Per dirla tutta, annoia. Annoia con garbo, senza ucciderti, ma non ti fa battere il cuore. Ora mi vado a vedere il secondo tempo, ma se mi rompono le scatole ancora con quei lunghi dialoghi in arabo prometto che chiudo (fatti non fummo per leggere sottotitoli, almeno qui in Italia).

Televisione indigesta


Sulla televisione dirò il seguente pensiero. Di sera ho l'abitudine di farmi uno spuntino e di guardare la televisione mentre lo faccio. Non voglio guardare un programma che mi piaccia, perché ho la certezza assoluta che non ne troverò. Mi basta trovare una trasmissione che non mi disturbi mentre mi mangio il panino, come se fosse una specie di musica di sottofondo. Ebbene, non ne trovo. Non trovo un solo programma che non mi dia fastidio o mi faccia perfino incazzare (è noto che se uno si incazza quando mangia non facilita il processo di digestione). Il mio raggio di azione va dal primo canale all'ottavo, cioè da Rai uno a Mtv. Trovo tre o quattro idiozie di reality show, qualche gioco cretino condotto da presentatori odiosi, il fantasma di Pippo Baudo che se lo vedo muoio, la tizia che fa "Domenica in "(ne ha fatta di strada da quando presentava le trasmissioni dal Vaticano e si vestiva a lutto!), striscialanotizia, le solite pupe superdementi (che ti fanno mangiare il fegato il loro vocabolario disastrato e soprattutto perché se le pappano gli altri), sceneggiati di cappa e spada che scimmiottano le peggiori brutture hollywoodiane, reduci dall’isola dei famosi, mariti decerebrati di Simona Ventura, interviste con Mastella trattato come se fosse Fidel Castro. Sono arrivato al punto – e giuro sull’Onnipotente che non mento – che per mangiarmi il panino senza travasi di bile mi devo guardare “Walker Texas Ranger” con Chuck Norris!

Getaway


Ieri ho (ri)visto il notevole film Getaway del 1972 del “visionario della violenza” Sam Pechinpah. Cast di tutto rispetto, l’indimenticato Steve McQueen, Ali MacGraw (Love story), sceneggiatura di Walter Hill (I guerrieri della notte) e musiche di Quincy Jones. Il film è assolutamente superiore al remake fattone negli anni Novanta con Kim Basinger, come quasi sempre capita in questi casi. E’ molto più lento, con lunghe carrellate che danno uno spessore allucinante alla storia. Visto uno Steve McQueen taciturno e dallo sguardo di ghiaccio. Sorprendeva un McQueen così duro e credibile, soprattutto umano quando doveva gestire il rapporto con la moglie McGraw che l'aveva tradito con un uomo "d'affari" (soprattutto criminosi come quasi tutti gli affari) per farlo uscire di prigione.

Enrichetta ti amerò per sempre




Correva l’anno 1971 quando vedeva luce lo stupefacente film, piccolo e insuperato gioiello di eleganza, E’ ricca, la sposo, l’ammazzo, con Walther Matthau nel ruolo di Henry Graham e Elaine May in quelli di Enrichetta Lowell. Regia della stessa May, la quale è stata anche sceneggiatrice della pellicola.

Due parole su Matthau e sulla trama. In questo film Matthau è ai suoi apici interpretativi, scontroso e amorale, trasandato e orso, sempre in rotta di collisione con perbenismo e buoni sentimenti. E’ l’assoluto mattatore del film. Snocciola battute a ritmo forsennato, ben coadiuvato dai riusciti personaggi che lo assecondano, prima di tutto il meticoloso maggiordomo Harold, poi il ricco e rapace zio, l’avvocato corrotto di Enrichetta e tutta l’accidiosa servitù al completo della miliardaria pasticciona, tra cui spicca la volgare governante signora Traggert.

È importante ricordare anche il doppiaggio di questo film, che a mio modo di vedere ha ulteriormente migliorato la storia (i nostri doppiatori sono in alcuni casi dei mostri di recitazione). Gianrico Tedeschi presta la voce a Matthau conferendogli tutte le sfumature interpretative acquisite in anni passati a calcare scene teatrali. L’insuperato Ferruccio Amendola, padre di Claudio, doppia il corrotto avvocato McPherson; il mitico Carlo Romano, già doppiatore di Jerry Lewis e del detective fumettistico Nick Carter, si occupa dell’avido zio Harry. Colei che presta la voce alla candida Enrichetta, pur bravissima, è l’unico nome della compagine che non conoscevo, ossia Flaminia Jesolo.

La trama. Henry Graham, miliardario caduto in disgrazia, deve assolutamente sposare un’ereditiera per sfuggire ai creditori che lo accerchiano. La sua scelta cade sulla miliardaria pasticciona, esperta di botanica, Enrichetta Lowell. Henry progetta di uccidere al più presto la poco desiderata moglie in modo da ereditarne le sostanze e continuare la dispendiosa e farfallesca vita di sempre. Tuttavia alla fine ci ripensa lasciandosi soggiogare dall’amore.

Alcune tra le moltissime battute del film (me lo sono rivisto per appuntarmele). Vi consiglio di leggerle.
“E’ morto col patrimonio intatto?” Matthau rivolto a un suo amico miliardario, chiedendo informazioni sul padre di Enrichetta, mentre la suddetta, più maldestra che mai, versa tazze di tè su tappeti costosi.

“Madame, la sua ossessione erotica per questo tappeto è da compatire”. Il protagonista, versando la sua tazza di tè sul solito tappeto mentre la padrona di casa fa una ramanzina alla candida Enrichetta che già si è sbrodolata ben bene.

“Sono venuta con l’autobus”. L’ultra-ultra ricchissima protagonista, quando Matthau le dice che può mandare via la macchina (tutti si immaginano che viaggi almeno in Rolls Royce), dato che l’accompagnerà lui a casa.

“Buongiorno, signore, le rimangono esattamente sette giorni e nove ore prima dell’indigenza.” L’impagabile maggiordomo Harold al disperato Matthau che non trova moglie per sanare i suoi debiti.

“Il moscato extradolce della ditta Moghen di Malaga con soda e succo di arancio amaro.” Enrichetta descrive la sua bevanda preferita al disgustato pretendente (quel vino è una vera schifezza).

“Studiati il capitolo sulla classificazione degli esperimenti di Mendel.” Matthau al domestico Harold (ci sono pochi giorni per conquistare la ricca ereditiera e bisogna padroneggiare la sua sfera di interesse, che è la botanica).

“Enrichetta, la sola differenza tra noi è che io sono un uomo e tu una donna. E questa non dovrebbe essere una difficoltà se stiamo ragionevolmente attenti.” Matthau dovrebbe fare la dichiarazione d’amore, ma la lingua si rifiuta di assecondarlo.

La scena in cui il protagonista pulisce con un fazzoletto la bocca dell’imbranatissima partner prima di baciarla.

La scena in cui le risistema la camicia da notte alla greca la prima notte di nozze (Enrichetta aveva infilato la testa nel buco del braccio).

“La signora ha una servitù estremamente democratica.” Il maggiordomo Harold al suo datore di lavoro che chiede perché lo chauffeur della sua novella sposa non è venuto a prenderli all’aeroporto (si scoprirà poi che lo chauffeur si sta spupazzando una cameriera infingarda quanto lui).

“Se non sparisci da questa casa e dai terreni circostanti entro 45 minuti, io ti sparo in qualità di intruso con dimostrate intenzioni criminali.” Matthau allo chauffeur nullafacente e ladro. E’ in corso una festa in cui è presente anche il resto della servitù nullafacente e ladra della fin troppo permissiva Enrichetta. Il nuovo padrone di casa spara in aria un colpo di avvertimento.

“Mi sono preso io la libertà, signore.” Harold informa il suo principale che ha provveduto lui a tagliare il cartellino del prezzo dal nuovo abito di Enrichetta, fugando i di lui timori che la novella sposa se ne andasse in giro mostrando etichette varie sul vestiario (lo ha fatto varie volte nel film).

“L’ho chiamata Alsophila Grahamy.” La felce tropicale scoperta dalla maldestra ereditiera durante la sua luna di miele. E’ una specie mai catalogata e lei le ha dato il nome del marito.

“Henry, avrai sempre tutte queste attenzioni per me?” “Temo proprio di sì”. Matthau, tornando sulla sua decisione di affogare la novella moglie si è buttato nella corrente impetuosa del fiume e ha riportato Enrichetta a riva.

“Vieni, adesso è meglio tornare.” Ultima battuta. I due protagonisti si tengono per mano e si allontanano in un paesaggio naturalistico di rara bellezza. L’orso Matthau si è quasi trasformato in un tenero innamorato. Enrichetta, lungi dall’essere la bruttina descritta per tutto il film, col corpo bagnato d’acqua è bella e desiderabile.


Enrichetta ti amerò per sempre.

Ancora sull'"Esorcista"


Voglio dire una cosa su questo film. E' davvero pauroso, basterà dire che sono passati decenni dalla sua uscita e ancora spaventa (non molto tempo fa è stato riproposto in prima visione a causa del successo che ancora riscuote presso le nuove generazioni). Io credo che al di là di qualche effetto speciale datato e di qualche eccesso nella fase dell'esorcismo, sia un bel film, intendo dire proprio girato con efficacia, con personaggi di spessore psicologico, specie la figura di padre Karras (impagabile il volto triste dell'attore che lo interpretava). Stupenda la parte ambientata in Iraq, straordinariamente umano il poliziotto impersonato Lee J. Cobb, inaudita la presenza scenica di Max Von Sydow. Brava pure Ellen Burstyn, che ha vinto pure un premio Oscar, sia pure non per questo film.

Ci sono alcuni particolari del film che non hanno perso nemmeno un po’ di fascino nonostante il passare del tempo. Per esempio il doppiaggio dell’indemoniata, quella voce di basso che all’improvviso vomitava oscenità o che semplicemente si esprimeva con una personalità e maturità del tutto estranea all’adolescente Regan. O la colonna sonora di Mike Oldfield. O il doppiaggio italiano del film, che dà un precisa idea del modo di esprimersi dell’epoca. Stupende le parti in cui padre Karras parlava in greco con i familiari.

Ho letto pure il romanzo di William Peter Blatty da cui è stato tratto il film. Mi piacque tanto che lo lessi tre volte. Blatty aveva studiato come gesuita, credo, e conosceva perfettamente il mondo in cui si svolgeva la storia e lo descriveva benissimo (chiaramente nel romanzo ci sono situazioni e scene che non sono potute entrare nel film per brevità).

Ho visto l’ultimo film dell’Esorcista, quello sulle origini, e l’ho trovato scadentissimo. Ridicolo, una cazzata. Ultima di questo commento. Non mi spaventa nessun film di orrore. Mai. Posso sussultare come tutti quando nei film si usa qualche trucchetto sleale tipo gridare nell’orecchio di qualcuno all’improvviso.

Tuttavia rivedendo in Dvd qualche anno fa L’esorcista mi accorsi che mi sentivo parecchio a disagio nella scena in cui la ragazzina scende dalle scale come un ragno, ma a dorso in giù. Non so se era quella scena spaventosa o se mi spaventano i miei ricordi dii un tempo. :-)
Secondo me una delle più belle cose di questo film sono i caratteri psicologici dei due preti principali, padre Karras e padre Merrin (cioè quelli che sono sempre stati chiamati il pre3te giovane e il prete vecchio: in napoletano “ ‘prevete giovane e ‘o prevete vecchie”). Karras si trova a dover sostenere l’incontro con il Male nel momento peggiore di crisi religiosa. Ha dubbi. La sua fede è seriamente intaccata, forse vorrebbe lasciare l’abito talare. Come è possibile che Dio permetta tante ingiustizie, come è possibile che permetta la presenza di tanto dolore e povertà (“Padre, fate un’offerta per uno che un giorno serviva la messa”). O che faccia morire la madre sola e piangente. Karras è uno psicologo provetto, ha un approccio mentale tipico di uno scienziato e non di un prete, è moderno nella figura (ricordo che fece impressione il modo in cui divorava la pista di atletica mentre si allenava probabilmente per lenire il suo disagio esistenziale), fa pure pugilato. E’ una magnifica figura moderna, piena di sensi di colpa (si consuma nei sensi di colpa), senza certezze, soprattutto religiose. Quando l’attrice MacNeil gli propone di attuare un esorcismo sulla figlia, Karras è di gran lunga il più scettico dei due, è di gran lunga quello che crede meno (anche se l’attrice era un’agnostica senza alcuna educazione religiosa che si esprimeva preferibilmente usando termini come “cazzo” o “che cristo”).
Alla fine del film il tormentato Karras ritroverà fede e fiducia in sé e si sacrificherà per sconfiggere il male. Si è fatto tardi, alla prossima su padre Merrin e magari su qualche altro personaggio del film. :-)

Western con Robert Duvall


Visto il western di ieri con Robert Duvall (Duvall è stato Tom Hagen nel Padrino, cioè l'avvocato irlandese adottato da don Vito Corleone). Il titolo è “Broken Trail”. Non c'è niente da fare, quando tutto ti tradisce nel cinema, quando vedi cazzate su cazzate a due dimensioni, quando ti propinano schifezze moderniste piene di effetti speciali o di angosce metropolitane a un tanto al chilo, il western, quello fatto all'antica, come lo faceva John Ford, non ti delude.

Robert Duvall ha 76 anni e va a cavallo da Dio. E' assolutamente insuperabile quando, davanti a un bivacco nelle pianure de West conversa bonariamente alla sua maniera istruendo i giovani cow-boy sui misteri e sulla dolcezza delle donne o su altri aspetti del mondo, come se fosse un piccolo filosofo della prateria occasionalmente prestato al lavoro di mandriano.

Il film di ieri era un western fatto alla buona vecchia maniera (non c’è niente di peggio di quando si cerca di fare una storia con pistoleri e sceriffi introducendo figure moderneggianti che col West non c’azzeccano una mazza). C’era una mandria di cavalli da portare nel Wyoming, c’erano praterie senza fine, cieli infiniti e orizzonti lontani, e c’era Robert Duvall che filosofeggiava nei bivacchi alla maniera del West: che diavolo serviva di più?

L'esorcista, come si diventa uomini


Primo anno di liceo. Ho 14 anni, forse nemmeno. Quell’anno sento parlare di cose nuove e rivoluzionarie, che sembrano avere il potere di sconvolgere la società e terremotare le tue conoscenze. Una di queste cose rivoluzionarie di cui si fa un gran parlare è un film. Si chiama L’esorcista ed è uscito in America già da diversi mesi provocando, si dice, sconquassi peggiori di una squadra di dirottatori su Cuba. L’esorcista ha fatto svenire caterve di persone nelle sale americane, in qualche caso non le solite vecchine baciapile, ma vigorosissimi omaccioni. Alcuni sventurati caduti in deliquio a causa dell’incontro ravvicinato con il Maligno non si sono ripresi più, si dice ancora. Qualcuno giura che le famiglie delle vittime dell’Esorcista abbiano intentato causa alla casa produttrice del film e tutti si dicono certi che vinceranno il processo a occhi chiusi. Del fenomeno Esorcista ha parlato pure il presidente americano Nixon, ma pare che in questo momento abbia altre e più grosse gatte da pelare.

Il film è ormai nelle sale italiane, ma ancora in prima visione, dunque in posti inaccessibili alle tue tasche. Inoltre è vietato ai minori di diciotto anni. E’ un problema, perché nei cinema di prima visione non farebbero mai entrare un quattordicenne come te, anche se ben piantato. Il discorso tuttavia potrebbe cambiare dal giorno alla notte quando la pellicola più spaventosa di tutti i tempi approderà nelle terze visioni di periferia, dove, lo sanno pure le pietre, darebbero libero accesso anche a un moccioso col lecca lecca a un film di Salvatore Samperi purché sganci la materia prima necessaria.
L’attesa è alimentata da voci incontrollate provenienti da ogni dove. Prima di tutto c’è il solito compagno di classe che giura sulla tomba della madre, ancora viva e vegeta, che lui L’esorcista l’ha già visto in prima visione. Ha sgraffignato un biglietto gratuito a quel faccendiere di suo padre e… ha visto l’inconcepibile. La classe al completo si riunisce accanto all’ammirato spettatore dell’orrore allo stato puro, anche se più di uno nutre dubbi sulle sue sparate. Cominciano le ragazze. E’ davvero un film così spaventoso? Di più, non andatelo a vedere se volete dormire la notte. E la scena del vomito verde o della testa che ruota sul collo? Tutto vero al cento per cento. Anche la pipì addosso? Ci potete giurare, ma questo è niente, c’è ben altro. Qui le fanciulle abbandonano il campo disgustate, ma i boys restano accampati sul posto avidi di particolari sul sangue sul crocifisso usato come fallo dalla ragazzina terribile. Seguono altre spiegazioni, ora più inclinanti sul filosofico che sullo scabroso, come l’accenno a un certo medaglione che compare alla fine del film il cui significato simbolico pare essenziale per comprendere la storia. O come le lodi alla colonna sonora, “Tubular bells” di Mike Oldfield, l’unico punto in cui gli ascoltatori si sentono alla pari con chi parla perché hanno sentito quel pezzo musicale alla Hit Parade radiofonica di Lelio Luttazzi.

Passa il tempo. Le voci sul film continuano a peggiorare. Si sprecano le battute sugli analisti che dovrai arricchire per superare i traumi psicologici successivi alla visione dell’Esorcista. Poi viene l’evento sconvolgente, quello che ti fa chiedere se valga la pena di rischiare la tua sanità mentale per vedere un film sia pure sulla bocca di tutti. Tuo fratello più grande, un essere impavido capace di attaccare briga con brutti ceffi grossi il doppio di lui… si comporta d’un tratto in modo inspiegabile. La sera precedente non riusciva a prendere sonno, lui che di solito mette la testa sul cuscino e saluta il mondo. Non solo non dormiva, ma sembrava aver paura di qualcosa. Sì, che strano. Per una volta ha rinunciato a trattarti da postlattante o a darsi arie da grand’uomo che ascolta i Led Zeppelin ed è a un passo dal combattere la Rivoluzione sulle barricate. Il giorno dopo vieni a sapere, da tua madre, che tuo fratello ha visto L’esorcista . Ci è andato con la sua comitiva di balordi soprattutto per fare casino e disturbare la visione agli altri. Ma una volta sedutosi nelle prime file del cinema quasi pieno, a lui e agli amici balordi è passata ogni voglia di ridere. Tua madre non lo dice, ma pare proprio la storia di quelli che andarono per suonare e furono suonati.
E’ venuto il momento ormai più temuto che atteso. L’esorcista, il più agghiacciante film di tutti i tempi è arrivato al cinema del tuo quartiere. Hai paura di andarci, ma ormai è una prova di coraggio a cui non puoi rinunciare se vuoi continuare a chiamarti uomo. I problemi come al solito non vengono mai da soli. Tutti i tuoi non molti amici giurano che hanno già visto il film o che hanno da fare. Prendi la risoluzione finale. Vai al cinema da solo. Sembra pura temerarietà, ma potresti avere un vantaggio su tuo fratello e gli altri sinistrati dal film. Hai già sentito parlare di quella storia in lungo e in largo, questo forse ti aiuterà ad avere meno paura.

Le sei di sera. Do i soldi alla cassiera del cinema. Quella afferra la grana e non si sogna nemmeno di dirmi che non ho l’età per entrare. Il cinema è pieno. Confusione da non dire, una baraonda. Fumo di sigaretta a gogò. Aria attraversata da ogni genere di battuta triviale. Ottimo, si dice un certo ragazzino che ancora non ha smesso di tremare. Quello è l’ambiente adatto per non farti sentire paura. Via le luci, inizia il film. La cosa brutta è che a un tratto nessuno parla più. Per fortuna quando la scena si sposta in dall’Iraq alla casa americana dell’attrice Chris MacNeil il frastuono aumenta. Aumentano pure imprecazioni in dialetto e risate scomposte. Bene così, mi dico, tutta quella caciara è pura manna dal cielo. La baraonda è molto benaccetta sia nella scena dei topi in soffitta, sia in quella della scritta “help me” incisa sulla pelle della sventurata dodicenne Regan, sia soprattutto in quella dei mobili che si spostano da soli nella camera o, infine, nella parte dell’indemoniata che vomita oscenità infilandosi il crocefisso proprio lì dove aveva detto il compagno di classe fanfarone.
Rido anch’io con gli altri. Sono contento perché finora non si è verificato l’atteso tracollo psichico. Reggo bene l’interrogatorio sotto ipnosi dell’indemoniata e riesco perfino a sentirmi un piccolo eroe nella famigerata fase del vomito. Ma al momento dell’esorcismo l’atmosfera si fa tetra. Nessuno ride più. Poche le voci in sala e molto il fumo di sigaretta che ti aggredisce ogni poro epidermico scortato dalle bestemmie immonde del demonio. Sconfitto Karras con un trucco psicologico, il Maligno uccide padre Merrin. Qui ho paura. Che alla fine vinca il Male? mi chiedo nel silenzio irreale della sala. Niente affatto. Karras – ribattezzato “il prete giovane” a furor di popolo - torna nella stanza dell’invasata. Quando il demonio lascia il corpo della giovane Regan per entrare nel suo, si getta dalla finestra uccidendo se stesso, ma sconfiggendo il Male.
Il film è finito. Partono colonna sonora e titoli di coda. E’ tempo di andare. Ho ancora i capelli elettrizzati per le ultime scene e c’è un brivido gelido che non ne vuole sapere di lasciare la mia schiena. Eppure sono contento. Ho visto il peggiore incubo a due dimensioni di tutti i tempi, l’ho visto andando a cinema da solo e ho ancora la forza di camminare per le strade scure del mio quartiere. Non sono impazzito, anche se la prova delle prove, lo so, verrà stanotte, nel mio letto buio. In ogni modo so già che, magari con qualche difficoltà maggiore del solito, dormirò. Lo so.
Fuori dal cinema vorrei quasi fischiettare: forse oggi sono diventato un uomo.

Mare tra narrativa e cinema


Prima la narrativa. Ovviamente "Moby dick", che è un vero e proprio poema marino. Sicuramente il romanzo in cui il mare è il più vivo e credibile protagonista. A me comunque rimase impresso molto il mare procelloso di Salgari, forse perché quando leggevo i romanzi del nostro maestro dell'avventura mi trovavo in una fase della vita più ricettiva. Ricordo nitidamente il Corsaro Nero, accigliato, illuminato dalla tetra luce dei lampi caraibici, sferzato dalla furia del vento, aggredito dall'abbraccio mortale delle onde mugghianti, ammirato da ogni singolo uomo della sua ciurma e perfino dalla figlia del suo odiato nemico Wan Gould, Honorata, mentre con sommo sprezzo del pericolo tiene ferma la barra del timone della "Folgore", quasi sfidando la furia degli elementi a ucciderlo, perchè in quel caso il destino gli avrebbe fatto solo un piacere. Il mare in letteratura è per me il Corsaro Nero al timone della "Folgore" in una notte di tempesta. Se avrà tempo parlerò pure del mio mare nel cinema.

Rimasta in sospeso la parte cinematografica del mare. Vado a colmare la lacuna. Primo film "La tragedia del Bounty" del 1935, con Charles Laughton, uno dei migliori cattivi di tutti i tempi, e clark Gable. Ricordo una tempesta rinforzata dal bianco e nero (il mare per me è tempesta, mi pare di averlo già sottolineato nel commento precedente) in cui Laughton si comporta come un pazzo codardo. Film premiato con l'Oscar che preferisco senz'altro a quello con Brando e all'ultimo con Gibson. Film numero due "Duello nell'Atlantico" 1957, storia di un epico duello tra un sottomarino tedesco e una nave americana. I comandanti delle due unità marine, Curd Jurgens e Robert Mitchum avevano la caratteristica di essere autentici gentiluomini che facevano la guerra loro malgrado. Il "Moby Dick" del 1956 di John Houston, con un Gregory Peck nei panni di un Achab accigliato e maledetto. Infine il recente "Master & Commander" con Russel Crowe. Uno dei pochi film recenti che si distaccano dalla banalità e dal pressapochismo odierni, pur attingendo come si conviene ai mezzi spettacolari. Molto efficace il tono formale usato dai vari personaggi del film. Il mare di questo film è spesso calmo e il vento in bonaccia.

In morte di Glenn Ford


Dolore, dolore immenso per la morte di Glenn Ford.I personaggi del nostra vita se ne vanno. Loro muoiono e moriamo anche noi.Mi sono andato a rivedere la filmografia di questo grande attore che vivrà per sempre nelle nostre cellule cerebrali. E' incredibile il numero di titoli cinematografici che hanno accompagnato la mia esistenza e credo non solo la mia. A differenza di ciò che dicono i telegiornali io non lo ricordo per "Gilda". Quello mi è sempre parso il film di Rita Hayworth e non il suo. Lo ricordo con piacere in un gran numero di western. "Quel treno per Yuma", uno dei più grandi western di tutti i tempi, "La legge del più forte" con Shirley McLayne (Ford è un coraggioso allevatore di pecore che lotta contro la prepotenza dei grandi mandriani). Lo stupefacente "Cowboy" con un altrettanto stupefacente Jack Lemmon (Lemmon è un portiere d'albergo che diventa socio mandriano di Ford contro la volontà di questi). Il western che però mi è rimasto più impresso è "La pistola nascosta": il nostro eroe è stato il più veloce pistolero del West però trasformatosi in un tranquillo droghiere che odia le armi. Dovrà tornare a battersi contro la sua volontà.

Nel resto della sua filmografia spicca "Il seme della violenza" con un giovane Sidney Poitier, film che è la madre di tutte le storie di scuole con ragazzi difficili. Ottimo nel "Ricatto più vile" (è un'industriale a cui rapiscono il figlioletto), piacevole in "Una fidanzata per papà), commedia in cui un giovanissimo Richie Cunningham deve trovare una fidanzata al padre... Questi sono solo alcuni dei filn di questo attore straordinario, ma soprattutto personaggio unico che ha accompagnato la nostra giovinezza. Spaziava su tutti i generi cinematografici. Forse non era troppo appariscente nella recitazione, ma risultava estremamente efficace nella sua resa interpretativa. In questo momento rammento con perfezione assoluta la voce italiana che lo doppiava (indimenticabile come quella di tutit i doppiatori d'epoca). Vaja con Dios, Glenn. Sei qui dentro con tanti altri. Oggi moriamo anche noi un po’ con te.

La freccia nera fischiando si scaglia


C’è un solo modo per iniziare a parlare della “Freccia nera”, indimenticabile sceneggiato televisivo di decenni fa, è questo: “La freccia nera fischiando si scaglia / e la sporca canaglia un saluto ti dà”.
Sono le parole di una delle sigle televisive più amate e cantate di tutti i tempi, almeno in questo paese. All’epoca la stragrande maggioranza della popolazione italiana, comprese anziane ultraottantenni con almeno due infarti alle spalle e mocciosi piagnucolosi che a stento dicono mamma, sapevano citare almeno un verso di quel trascinante motivo. Io conoscevo tutta la canzone da cima a fondo, inclusi i fischi e l’epico “la-la-la” del coro dei briganti della foresta, e non ero per niente un caso raro in quell’Italia che fu, l’anno dello sbarco sulla luna e dello sceneggiato televisivo che ha riscosso il maggior indice di ascolto di tutti i tempi in queste contrade, sedici milioni e mezzo di telespettatori di media (altro che Elisa di Rivombrosa).

Due parole sulla storia. Regia del mitico Anton Giulio Majano, autore di opere mai dimenticate come “La cittadella” o “Delitto e castigo”. Il giovane Dick Shelton (l’attore Aldo Reggiani) è dibattuto fra le avverse fazioni degli York e dei Lancaster al tempo della Guerra delle Due Rose in Inghilterra. La bella e ribelle Joan Sedley (Loretta Goggi), si traveste da uomo per sfuggire a un matrimonio non voluto. Battaglie, tradimenti, eroismi, passaggi segreti, intrighi e briganti della foresta fautori della lotta alla tirannia.

Quando si parla della “Freccia nera”, ci sono molte cose che sei obbligato a dire. E le devi dire nell’ordine che segue.
Devi confessare che all’epoca eri innamorato follemente di Loretta Goggi (amore che continua tuttora quando la rivedi in televisione), anche se tutti ti consideravano un poppante a cui regalare odiose caramelle alla fragola. In questo tuo delicato sentimento eri in buona compagnia, perché qualsiasi individuo maschile dotato di raziocinio non poteva evitare di sognare di trovarsi in compagnia della Joan Sedley travestita da maschio (e di difenderla dai molti pericoli di cui abbondava la tumultuosa Inghilterra del Quattrocento). Inoltre ritagliavi le immagini della dolce Loretta diciassettenne da qualsivoglia giornale e rivista di gossip alla “Grand Hotel” e sognavi di cavalcare con lei in tenebrose foreste medievali, anche se l’unica volta che avevi visto un cavallo dal vero ti aveva fatto una paura mica da ridere.

Seconda riflessione obbligata: il tuo desiderio spasmodico di impugnare una spada vera e enorme con queste mani vibranti di emozione. La spada vera e enorme serviva per essere brandita in groppa a un destriero nella tua mente, sotto un’armatura di cotta di maglia, con tanto di stendardo di York o Lancaster (pur avendo seguìto lo sceneggiato con devozione e chiesto lumi agli adulti, non riuscivi mai a capire quale fosse la Rosa dei buoni, se quella rossa o quella nera, ma tanto non aveva importanza). Il desiderio di menare fendenti o stoccate ai malvagi diventava necessità insopprimibile quando assistevi alla sigla iniziale dello sceneggiato, da non confondersi con la canzone finale dei Fratelli della Foresta. La sigla iniziale era un travolgente motivo epico composto dal valoroso maestro Riz Ortolani, accompagnato da scene di cavalieri medievali che si affrontavano a viso aperto tra castelli in fiamme e sfondi di devastazione bellica. Peraltro il motivo di Ortolani a un tratto deviava magistralmente dal registro epico-guerresco a quello romantico, inducendoti senza indugio a rinfoderare spade e sogni di gloria e a cercare con gli occhi una figura femminile capace di farti palpitare il cuore.
Poiché la possibilità di procurarti una vera lama medievale era piuttosto remota per te ragazzino in calzoncini corti di un’Italia lontana, eri costretto a ripiegare su una spada di legno, costruita con amore e soprattutto con l'aiuto dei tuoi amichetti più portati ai lavori manuali. Ovviamente i tuoi amici avevano già una spada analoga, ben più solida della tua, forgiata con robuste assi di legno sottratte ai padri falegnami, piallata e rifinita con cura, ed erano ansiosi di affrontarti in un duello all’ultimo sangue. Tale duello era preceduto da almeno mezz’ora di dispute su chi avrebbe dovuto interpretare la parte dell'ammirato Dick Shelton (il perdente della disputa, in genere era quello con l’arma migliore che si sentiva in vena di magnanimità verso i disgraziati forniti di mazze di scopa semibruciate, ripiegava sulla figura del collaudato Ivanhoe).

La terza e ultima considerazione a cui sei costretto parlando della “Freccia nera” televisiva (ce ne sono da fare altre, ma quelle almeno sono frutto di una tua libera scelta) è la inaudita, impressionante bravura dei Cattivi di quello sceneggiato. A memoria d’uomo non si è mai vista una storia televisiva con cattivi tanto ispirati e convincenti. Prima di tutto c’e Arnoldo Foà nella parte di Daniel Brackley, signorotto inglese pronto a tradire e a uccidere chiunque per sete di potere (“vende” in matrimonio anche la povera Loretta Goggi). Foà ha tra l’altro fatto uccidere il padre di Aldo Reggiani, che ignaro del delitto gli è fedele servitore. Che dire del machiavellico Arnoldo? Magistrale. Indimenticabili i suoi ghigni, soprattutto unici i suoi inarcamenti di sopracciglia e quelle sue mimiche facciali così convincenti da farti credere che la malvagità era una componente naturale della vita. Foà recitò così bene la parte del cattivo da essere odiato da una generazione di telespettatori quasi come certi “fetienti” della sceneggiata napoletana.
Eppure anche il bravissimo Arnoldo trovò dei competitori agguerriti nel suo stesso cast. Prima di tutto Adalberto Maria Merli nel ruolo del sanguinario e gobbo duca di Gloucester(Rosa Rossa o Rosa Nera? Boh, vattelo a ricordare). Merli esibiva un sguardo diabolico perfino superiore a quello di Foà e uccideva, a differenza del personaggio di Daniel Brackley, per il semplice gusto di farlo (impressionante il modo in cui trafigge a sangue freddo alcuni nemici ormai vinti e imploranti grazia).
Non c’è due senza tre, ecco ancora un valente attore nella fazione dei cattivi, ossia il caratterista Alberto Terrani nel ruolo di Lord Shoreby, l’ultimo pretendente di Loretta-Joan, il quale dà un’interpretazione della cattiveria più tendente al frivolo e alla mondanità che alla crudeltà pura e semplice. Basta così? No, c’è posto anche per Tino Bianchi (sir Olivier, vescovo corrotto) e Leonardo Severini (Bennet Hatch), ossia i complici delle malefatte giovanili del terribile Foà, che a differenza di quest’ultimo sono dilaniati dai sensi di colpa (all’epoca questa sfumatura psicologica era parecchio dura da mandare giù: uno o è cattivo o non lo è, si diceva un certo ragazzino mangiatore di caramelle, e se lo è come fa a provare rimorso per le sue malefatte?)

La freccia nera moderna in tv


Ne dico una di passaggio fuori argomento. Stasera volevo vedermi la prima puntata della "Freccia nera" data in tivvù. Mi spingeva il ricordo dello splendido e mitico sceneggiato trasmesso dalla Rai alla fine degli anni Sessanta (che annoverava grandissimi interpreti del calibro di Arnoldo Foà diretti dalla mano esperta di Anton Giulio Majano). Un giorno devo assolutamente scrivere un post su questo magnifico sceneggiato televisivo e della formidabile sigla musicale ("La freccia nera fischiando si scaglia...") che ha fulminato un'intera generazione italiana.

Dunque vado per guardare la prima puntata e noto il protagonista, tal Scamarcio, che si rivolge al padre con un sottofondo di accento romanesco che parrebbe più adatto a inveire a li mortacci nostri che a recitare Stevenson. Vabbé, mi dico, un semplice caso, non sottilizziamo troppo. Nella seconda scena si vede un'amazzone a cavallo (poco prima l'attrice che impersona il personaggio era stata intervistata a "Striscia la notizia" dimostrando un quoziente intellettivo degno di una velina) che tende l'arco e galoppando a briglia sciolta scocca una freccia... che trafigge una mela posta su un palo a un centinaio di metri di distanza.

Mi qui mi sono detto, dovevano essere passati un paio di minuti: "Basta con le cazzate!" Non avrei lasciato che la volgarità di certa televisione moderna distruggesse i ricordi cari che serbo nel mio cuore.

Bacio al cinema


Ancora sul bacio e sul cinema classico. Chissà se tu da ragazzina reagivi come me guardando in compagnia, specie di estranei o di amichetti sfacciati, i film in tivvù. Io ero un ragazzino timido. Quando veniva il momento del bacio nei film mi agitavo sulla sedia, mi facevo rosso, avrei voluto sparire. Avrei voluto guardare altrove, ma sapevo che così facendo avrei attirato l’attenzione e allora seguivo tutta la scena sentendomi avvampare. Rammento che il momento peggiore era quello che precedeva il bacio, circostanza in cui cercavo di mostrarmi disinvolto per evitare di essere bersagliato da battute sul mio evidente disagio. Naturalmente se vedevo il film da solo o in compagnia di persone fidate, godevo del bacio e fantasticavo di essere io il fortunato sullo schermo.

Il ballo nel cinema


Eccomi al commento sul cinema ballato. Non ho voglia di fare ricerche su Google quindi mi baserò unicamente sui miei ricordi. E’ incredibile che per gran parte della mia vita io abbia considerato il ballo con sufficienza (probabilmente ciò è dovuto all’apologo della volpe e dell’uva), quando i film musicali mi hanno sempre appassionato (insieme ad altri numerosi generi cinematografici, a dire il vero). Il mio discorso non può non partire da Fred Astaire, cioè da colui che è considerato a ragione il più elegante ballerino mai apparso sullo schermo. Di Astaire ricordo il tip tap e i duetti indimenticabili con Ginger Rogers, la quale a dire il vero sembrava sempre un passo indietro al Nostro. Lo collego senza alcun dubbio alla canzone “Cheek to cheek”, probabilmente il suo apice interpretativo nella canzone e nella danza. Astaire, dopo un periodo di diminuita fortuna, fu rilanciato in grande stile negli anni Cinquanta, per lo più in coppia con l’elegante Cyd Charisse. In questa sua seconda fase artistica interpretò film di maggiore spessore artistico (tra i suoi registi ci fu pure Vincente Minnelli), rivoluzionando il suo stile di danza per adattarlo ai cambiamenti di gusto. Peraltro i critici sono unanimi nel considerare Cyd Charisse una danzatrice superiore a Ginger Rogers… Tuttavia a me come ad altri il periodo d’oro di Fred Astaire è sempre parso quello dorato degli anni Trenta e del tip tap. Film indimenticabile di questa seconda fase artistica “Papà Gambalunga” con Leslie Caron (di recente ne hanno fatto pure un cartone animato con immancabile sigla di Cristina D’Aveva).

Legati agli anni Cinquanta, ci sono almeno un altro ballerino e un film indimenticabile. Il ballerino è Gene Kelly, considerato da sempre il solo vero rivale di Astaire sullo schermo. Tuttavia a me Kelly, anche si avvaleva di un tipo di danza più sofisticato e atletico e anche se i suoi film in genere avevano un livello qualitativo superiore rispetto a quelli del grande Fred, non mi è mai piaciuto troppo. Indimenticabile, si sa, la scena di “Ballando sotto la pioggia”. “Sette spose per sette fratelli” a mio modo di vedere è il più bel musical basato sul ballo che sia stato mai prodotto. Ricordo che da piccolo ne vedevo degli spezzoni, ma la televisione per motivi rimastimi ancora oscuri non lo dava mai (credo c’entrassero i diritti cinematografici). Questo film subì lo stesso ritardo nella programmazione televisiva di un altro classico, ossia “La finestra sul cortile” di Hitchcock… e quando finalmente li vidi entrambi fui immensamente soddisfatto dalla loro qualità. Considero “Sette spose per sette fratelli” un’opera perfetta nel suo genere.

Facciamo ora un balzo agli Settanta, anche se ho scordato sicuramente un mucchio di film precedenti (“West side story” non l’ho scordato, è solo che questa pur pluripremiata pellicola non mi ha mai ispirato). Qui abbiamo diversi film diventati classici “Jesus Christ Superstar” (splendide coreografie moderne e suggestiva ambientazione nel deserto israeliano, non si può non citare la canzone di Maria Maddalena, anche se ha poco a che fare con il ballo “I don’t know how to love him”). “Hair”, le coreografie migliori durante la canzone “Acquarius” o nella stessa “Hair”, ma anche nel brano in cui gli hippy saltano sul tavolo della festa di matrimonio o fidanzamento, ora non ricordo bene. “Grease”, per me è indimenticabile tutta la parte del ballo della scuola, specie quando i ragazzi si scaldano, con magnifiche canzoni d’epoca, prima della gara vera e propria. La canzone che più mi piace di questo musical (mi fa sognare sempre come se l’ascoltassi per la prima volta) è “There are worse things I could do” cantata da Betty Rizzo, leader delle Pink Ladies, quando pensa di essere incinta. Dato che il commento è ancora lungi dall’essere finito lo completo nel prossimo passaggio. Saludos por todos.

Eroe per sette minuti e mezzo


Diciamo che parte una colonna sonora, una musica che ti fa ribollire il sangue e ti rende desideroso di affrontare stuoli di nemici per difendere la donna del tuo cuore. Diciamo che la musica appena partita è uno dei più trascinanti motivi mai succedutisi sullo schermo, una specie di ballata di sapore irlandese, ottenuta con violini e percussioni degne di una danza della pioggia Sioux. Diciamo che ti trovi in un accampamento urone e che gli indiani lì riuniti vogliono bruciare viva la donna che ami, ossia Cora, ossia la splendida Madeleine Stowe al suo meglio. Diciamo che con un sotterfugio riesci a far scampare questa leggiadra creatura alla morte, ma che qualcun altro deve morire al suo posto, un maggiore inglese distintosi, prima di questo gesto impavido, solo per grettezza intellettuale e conformismo sciovinistico.
Ora però abbiamo un problema grosso come una casa. La musica trascinante continua a echeggiare, i violini della colonna sonora ti parlano, ti blandiscono, ti esaltano. Non si può rimanere con le mani in mano mentre si ascolta una simile musica, devi fare qualcosa di eroico. Però sei fortunato. Magua, il vendicativo e sanguinario indiano autore di imprese scellerate, si è da poco allontanato dal villaggio urone con Alice, la sorella della tua amata. Non c’è nemmeno da pensare cosa fare, con una musica così. Prima di tutto spari al coraggioso maggiore inglese offertosi come vittima sacrificale, per risparmiargli l’agonia al palo della tortura. Quindi inizia la tua corsa, che ti fa arrampicare per sentieri scoscesi in mezzo a boschi cupi e purissimi. Accanto a te Cora, davanti tuo fratello acquisito Uncas e tuo padre adottivo Chingachgook

Certo, devi fare l’eroe, però seguendo la musica. La musica in questa storia è tutto, specie in questi straordinari sette minuti e mezzo. La colonna sonora ordina e tu obbedisci. Violini e percussioni ti dicono cosa fare e tu lo fai. Dopo due minuti la musica cambia, tornando al tema principale del film, meno tambureggiante, più epico. Hai il tempo di guardarti intorno per ammirare la bellezza dei paesaggi. Guardi le valli e i dirupi, l’acqua tersa di un ruscello e le scarpate che ti tolgono il fiato, il verde unico degli alberi e il cielo del Grande Nord. Tuttavia ecco il rientro in grande stile della ballata pseudoirlandese: bisogna riprendere l’inseguimento del gruppo urone. Uncas uccide alcuni indiani e affronta il vendicativo capo urone (Magua vuole uccidere Alice e Cora per vendicarsi del loro padre, il colonnello inglese Munro). Magua comunque è un brutto cliente. Anche la colonna sonora sembra capirlo, poiché si fa funerea, rallenta per tutto il tempo necessario a Magua per uccidere Uncas e ad Alice per gettarsi disperata da un dirupo. Ancora qualche secondo di ritmi bassi per valorizzare la natura grandiosa in cui si svolge questa scena e per percepire il muto dolore di Chingachgook e Cora. Poi ecco i violini riprendere a martellare. Sono passati ben sei minuti, dall’inizio della musica che guida i tuoi slanci ardimentosi. Ne resta solo uno e mezzo per compiere l’atto eroico reclamato dalla situazione. Novanta secondi sono pochi, ma possono bastare per farti correre, con ampie falcate e totale sprezzo del pericolo, imbracciando due fucili i cui colpi freddano altrettanti uroni. Con un fucile sottratto a un indiano, tieni sotto mira i rimanenti accoliti di Magua, mentre Chingachgook affronta l’assassino del figlio nel duello finale e lo uccide. E’ finita. Magua ha esalato l’ultimo respiro in primo piano. La musica trascinante si è spenta.
Però c’è una coda, per te spettatore ed eroe per oltre sette minuti. Ancora per qualche secondo percepisci al tuo fianco una donna affascinante come Cora. Ancora per qualche secondo sei parte dei più splendidi paesaggi creati su questa terra. Ancora per qualche secondo sei felice.

Oggi pomeriggio mi preparavo il caffè quando il televisore ha intonato una melodia che non manca di farmi vibrare l’anima. Per l’ennesima volta ho ripreso il dvd dell’Ultimo dei Mohicani e mi sono rivisto i famigerati sette minuti e mezzo che mi fanno battere il cuore.

Totò era un genio


Totò è un genio della risata e del cinema. Nego nella maniera più assoluta che i suoi film siano inguardabili, alcuni anzi sono degli autentici gioielli o gioellinini (rivedrei e rivedo di continuo film come "Miseria e nobiltà" e trovo impagabile la partecipazione del principe della risata nei "Soliti ignoti"... la battuta del Fu Cimin è epocale). La particolarità dei film di Totò peraltro è quella di migliorare con gli anni, come il buon vino, e questo è un miracolo cinematografico da cui spesso sono esclusi perfino film pluripremiati e pluriosannati dalla critica).

L'ultimo dei Moicani


Dato che sono un'inguaribile romantico "L'ultimo dei Moicani” mi è piaciuto molto. Madeleine Stowe (la maggiore delle figlie del colonello Monroe) è stata per alcuni anni al centro delle mie fantasie. Trovavo del tutto irresistibile quel suo sguardo reso indimenticabile da un lieve strabismo di Venere. Ora ricordo anche il nome del personaggio, Cora. Che nome evocativo e dolce. Efficace nella parte dell’indiano-bianco lo scattante Day-Lewis, ben coadiuvato dai parenti indiani acquisiti Uncas (ucciso dal truce Magua) e Cingachgook (che sollievo quando nel finale fa a pezzi il cattivissimo e vendicativo Urone, e cioè il bravo attore Wes Studi, noto per accettare solo parti di pellerossa).

Che dire di quel film? Amore, amore, amore. Ce n'è di questo sentimento a più non posso (anche troppo per certi palati che non gradiscono i sapori dolci). Accompagnato da robuste dosi di avventura. La sceneggiatura funziona anche perché ispirata a quella di un valido film degli anni 30 sullo stesso argomento.

Tre cose. Uno, i personaggi riescono a essere credibili, come raramente succede nei film moderni. Non si cede nemmeno un palmo alla grossolana semplificazione di certi recenti film in costume che sembrano appartenere più al videogioco che al cinema (“La maledizione della prima luna”). I rapporti interpersonali sono guidati da una giusta dose di formalismo. Però i punti davvero di forza del film sono il due e il tre. Ossia i paesaggi di immane bellezza che fanno da sfondo alle vicende raccontate. Le foreste incontaminate del grande nord, le montagne brumose, il sottobosco pregno di pericoli, le fresche cascate con l’acqua pura come quella esistente ai primordi della vita. Davvero non ricordo di aver mai visto in nessun film paesaggi stupendi e grandiosi come quelli dell’”Ultimo dei Mohicani”, forse solo in qualche passaggio del “Signore degli Anelli”, ma nemmeno in quest’ultima storia i burroni, le distese erbose, i greti dei fiumi erano di tale livello.

A chiudere, l’efficacia unica della colonna sonora. Il tema principale è quello che è. Chi lo ha sentito una volta non credo che lo potrà mai scordare. Eppure il punto in cui io rimasi letteralmente ipnotizzato è quando Day-Lewis e i suoi compagni indiani inseguono Magua e il suo gruppo per i sentieri scoscesi, accompagnati da un trascinante motivo di sapore irlandese, una specie di ballata popolare fatta a suon di violino che si protrae per ben sette minuti indimenticabili. Delle volte prendo il dvd del film e guardo solo quei sette minuti di inseguimento condito dalla ballata irlandese (o quello che è) di sottofondo.

Gag di "Luci della città"


Avevo in sospeso un commento sulle gag del chapliniano “Luci della città”. Colmo quindi la lacuna. Inizio del film, inaugurazione di un monumento. Importanti personalità tromboneggiano in piazza. Nonostante l’assenza di parola si capisce che sindaco e notabili cianciano di gloria, libertà, alti ideali, virtù eroiche e bla bla bla. Si toglie il velo dal monumento e Charlot, più straccione e trasgressivo che mai, rovina la festa con la sua presenza (dormiva stravaccato sul monumento). Quindi peggiora la situazione facendosi infilzare i fondelli cenciosi nella spada protesa di uno dei personaggi marmorei, provocando crisi isteriche nei pomposi pezzi grossi riuniti in piazza. Chaplin osserva le procaci nudità di una statua in vetrina, dandosi arie da esteta lontano dalle bassezze della carne, ma la sua insuperabile mimica fa capire che qualche bassezza è rimasta. Arretrando per ammirare la statua con occhio all’apparenza raffinato, è sempre sull’orlo di un tombino che si apre alle sue spalle.

Come ricordato nel post, prende in prestito la lussuosa automobile di un miliardario (che lo tratta da amico quando è ubriaco e perde del tutto la memoria da sobrio) per recuperare cicche di sigaretta dalla strada. Ultima delle molte gag del film, una scena che è stata ripresa tale e quale in uno dei primi film di Rocky, credo il secondo. Durante l’incontro di boxe che Charlot affronta per procurarsi i soldi per la fioraia cieca di cui è innamorato, sia lui che il suo avversario vanno al tappeto. La particolarità è che quando uno dei pugili si rialza durante il conteggio dell’arbitro l’altro va giù. Uno sale e l’altro scende. Infine sarà Chaplin a non rialzarsi..Alcuni momenti non sempre comici, ma altamente poetici. Stregato dalla fioraia cieca, Chaplin si siede vicino a lei per osservarla di nascosto (la fioraia lo centrerà con l’acqua sporca delle rose quando la butta via). Nel primo incontro, il Vagabondo tira miracolosamente di tasca una moneta, che è senza alcun dubbio l’unica che abbia e che vedrà per chissà quanto tempo, e la consegna alla fioraia per acquistare una rosa.Nel finale è deriso dai ragazzini di strada, che gli buttano pietre quando si volta. Straordinaria la mimica di Chaplin, quando rivolto ai monelli fa uno sguardo che significa più o meno: voi uccidete un uomo morto.

Infine impagabile l’ultimo sguardo del Nostro prima della parola fine. La fioraia ha riacquistato la vista con i soldi datigli dal suo benefattore, andato in prigione per procurarseli. Incontra Charlot e chiaramente lo deride e lo tratta come un poveraccio a cui fare la carità. Però a un certo punto, con il tatto, la ragazza capisce finalmente con chi ha a che fare (per tutto il tempo della sua cecità aveva pensato di avere a che fare con un miliardario e Chaplin chiaramente l’aveva lasciata nell’equivoco). Chaplin guarda nella cinepresa con un misto di timore e speranza: sarà accettato o no, nella sua veste straccionesca, dalla sua ormai cambiata innamorata? Nessuno spettatore, e io men che mai, ha dubbi sul fatto che l’amore vinca, ma resta il fatto il film ha un finale aperto.

Gag della "Febbre dell'oro"


E' il momento di segnalare alcune memorabili gag chapliniane dei due film che ho citato.Iniziamo dalla “Febbre dell'oro”. All'inizio i due compagni di capanna di Charlot lottano cercando di strapparsi di mano un fucile carico, la canna del quale ha la particolarità di puntare sempre verso il del tutto neutrale Vagabondo, per quanti tentativi egli faccia per sottrarsi alla minaccia dell'arma.Appena si apre la porta della casa, una violenta tormenta si abbatte all'interno rendendo impossibile non solo avanzare, ma anche mantenere la propria posizione.

C'è poi la già ricordata gag della scarpa da mangiare lessa. Se la mangia tutta Big Jim, il grosso compagno di Charlot, che a un certo punto, accecato dalla fame cerca di divorare il malcapitato socio di avventure. In questo frangente Charlie tratta i lacci della scarpa come se fossero prelibati spaghetti. Ancora qualche sketch, per esempio quello ripreso spesso da Franco Franchi, e cioè quando Charlot, intirizzito e indurito dal freddo diventa una specie di palo rigido difficile da sollevare. Poi, la ricordata danza con i panini, in cui Chaplin mima le gambe di un elegante ballerino utilizzando due forchette infilzati in panini. Una delle scene più suggestive di tutti i tempi. La casa in bilico sul burrone, dove sia Chaplin che Big Jim, pur muovendosi spesso, finiscono sempre per trovarsi ai lati opposti dell'abitazione, mantenendo quindi l'innaturale equilibrio della casa sul precipizio.

Non è una gag, ma è di grande effetto la scena dell'ultimo giorno dell'anno in cui un solitario Vagabondo spia, al freddo e alle intemperie, le luci e l'allegria della festa che si tiene all'interno di un saloon (in cui è presente anche la fin troppo disinvolta ragazza di cui è innamorato, che chiaramente se la spassa con un altro). Comicissima la scena in cui Charlot balla con Giorgia, ma è ostacolato da un grosso cane legato a sua insaputa alla sua cintura. Ultima di questo film, anche se la “Febbre dell’oro” è una miniera di gag. Il nostro eroe, ormai diventato ricco con l’oro del Klondike, è in viaggio su una nave vestito lussuosamente, ma i suoi antichi riflessi condizionati lo spingono a raccattare una cicca di sigaretta e a conservarla.Finale: mentre gli fanno un servizio fotografico con i suoi vecchi panni da straccione incontra Giorgia, che ha pietà di lui e lo aiuta credendolo ancora un poveraccio. Dopo la redenzione della ragazza, l’amore e poi la fine del film. Delle gag di “Luci della città” parlerò nel prossimo commento.