venerdì 28 settembre 2007

Eran Trecento

300 è un film sul sacrificio degli spartani alle Termopili che ho visto con piacere. Il film è composto per un sessanta per cento di moderni fumetti dark (è tratto da un fumetto di Frank Miller, disegnatore di un Batman molto crepuscolare), di un venti per cento di teatro declamatorio alla giovane Gassman e del restante venti di videogioco grandguignolesco misto a musica rock. Ci sono battaglie quasi ininterrotte, pettorali e bicipiti maschili quasi di certo ritoccati al computer perché pure il più mingherlino degli attori ha un fisico statuario, intrighi, eroismo da “Siam pronti alla morte, se Sparta chiamò”, ci sono gli “Ha-ù!” dei guerrieri che sembrano quelli dei Sioux di Cavallo Pazzo”.
Avevo letto che era stato male accolto dalla critica americana, ma mi pare che i critici, come spesso accade, abbiano preso un granchio e soprattutto non abbiano saputo cogliere la chiave di lettura da comics che permea e guida la storia.
Il film è uno stupendo fumetto, tavole e tavole di comics in un cupo colore che sembra quasi bianco e nero, infiocchettato da una enfatica eppure trascinante voce fuori campo, che si scoprirà alla fine essere quella dell'unico sopravvissuto delle Termopili, alla testa di un esercito coalizzato dei greci presto vittorioso contro gli invasori persiani. Un mucchio di teste, gambe e braccia recise rotolano di qui e di là quasi senza soluzione di continuità, ma il sangue che scorre sullo schermo è quello delle strip di un Prince Valiant o al massimo di un Conan il Barbaro disegnato da John Buscema.
Il mondo dei fumetti non è morto, ma è vivo e vitale, si è adattato ai cambiamenti culturali e tecnologici ed è capace di regalarci ancora emozioni persino attraverso le due dimensioni del cinema.

sabato 8 settembre 2007

Capitano, Mio Capitano - ll barbarico Yawp


Tutto il film, direi.

No, che dici? L’attimo fuggente è un film splendido, descrive al meglio le aspirazioni dei ragazzi di ogni tempo e il desiderio di alcuni non piegarsi al conformismo. E’ una storia così avvincente che ti persuade di essere sempre stato un poeta, anche se non hai mai letto un verso di Whitman, Byron o Tennyson. Robin Williams nella parte del professore antisistema John Keating, poi, è insuperabile, non per niente sfiorò l’Oscar... Però tu devi restringere il campo delle tue riflessioni. Concentrarti su un punto specifico.

Allora direi tutte le scene delle lezioni di Williams/Keating. Quando lui parla del “carpe diem”, del “cogli la rosa quando è il momento”. Quando spiega che ciò che ci rende uomini è la poesia (in tutte le sue sfaccettature) e non le sia pur rispettabili professioni come la medicina o l’avvocatura. Quando parla di succhiare il midollo della vita nelle grotte notturne o fa strappare agli allievi l’introduzione del pomposo libro di testo di letteratura. E non scordiamoci di quando fa risuonare “Il mio barbarico YAWP”. Ah, non scordiamoci del barbarico YAWP, per favore.

Sì, dici cose sacrosante. Il barbarico YAWP a me fa ribollire il sangue di pensieri romantici ancora a distanza di anni. Ma ti mantieni ancora troppo largo. Devi restringere il campo delle tue osservazioni.

Ho capito, ti riferisci alla parte finale in cui quel ragazzo, quel Neal, si uccide perché il padre gli nega il permesso di recitare Shakespeare. La morte del sognatore Neal è la chiave di volta del film, dato che dà a quel bacchettone del preside della scuola di Welton l’opportunità di liberarsi del detestato Keating. Magari ti riferisci pure a quando i ragazzi sono costretti alla delazione contro il loro osannato professore per evitare l’espulsione. Che tristezza.

Ancora no. Devi circoscrivere, limitare la tua attenzione a un punto preciso. Ancora non ci sei. Pensa a una sola scena, a una sola sequenza.

Ecco! Ho afferrato tutto. Scena finale. Keating è tornato in classe per prendere le sue cose prima di lasciare la scuola. E davanti allo sguardo esterrefatto di quel parruccone del preside che fa lezione di letteratura alla vecchia maniera, i ragazzi saltano sui banchi al grido di “Capitano, mio Capitano”. Ho messo il fermo immagine sul lettore dvd. Ho contato dieci ragazzi in piedi sui banchi che sfidano l’espulsione e diventano uomini; e altri otto vigliacchi - tra cui quella carogna di Cameron, non dirmi che ti sei scordato di quel piccolo Giuda dalla testa rossa - che se ne rimangono a testa bassa seduti. Ho individuato perfino due banchi vuoti. Voglio proprio vedere se ora avrai il coraggio di dirmi di restringere ancora.

E invece quel coraggio ce l’ho. Devi concentrarti sul titolo italiano del film (migliore di quello americano). Devi cogliere l’attimo, l’attimo fuggente che caratterizza tutto il film.

Allora lo colgo. E’ quel particolare ragazzo, quello e quello solo, il primo che si alza sul banco, quello sensibile e balbuziente, quello che si vergogna di parlare in pubblico, aspetta ricordo pure il nome, Todd Anderson, quando il timido Todd salta sul banco e dice “Capitano mio capitano”, ecco l’attimo decisivo del film. Confesso che mi commuovo sempre vedendo la scena di Todd.

Sì, finalmente ci sei riuscito. Ti commuovi solo? Andiamo, non essere reticente. Fa’ conto che non ci senta nessuno.

Va bene, quando Todd sale sul banco mi vengono gli occhi lucidi. Sempre. Ho questa reazione unicamente quando guardo quella scena da solo e nessuno mi vede. Perché se c’è gente con me mi mostro disinvolto e faccio pure dell’ironia sul film.

Una curiosità, cosa hai provato ieri sera quando hai riguardato le scene salienti del film e hai visto Todd salire sul banco all'uscita di classe del professor Robin Williams? No, non dire niente. Ricordo che eri solo quando hai visto quella scena.

giovedì 30 agosto 2007

Film che restano

Cos'è un capolavoro e perché si definisce così? Chiunque affermi di saperlo è uno sciocco. Non c'è alcun modo di capire che ci si trova di fronte a un'opera fuori della norma nel momento in cui la si vede. Se ti tratta di un film e tu lo vedi ora, il massimo che puoi dire è che è un bel film, che è ben recitato e che ha quelli che a te sono sembrati diversi pregi. Basta. Non puoi aggiungere altro.
La definizione per spiegare un'opera fuori dal comune che ho trovato io è la seguente (si parla in questo caso di cinema). Un film superiore è un film che rimane lì, intatto e integro, assolutamente impermeabile alle offese del tempo, quando sono passati dieci o venti anni (meglio ancora se trenta o più). E' un'eroica statua che gli agenti atmosferici non riescono a intaccare, sebbene ci si impegnino con forza.
Di film siffatti ce ne sono parecchi. Sono rimasti nell'immaginario collettivo. molto più di opere superosannate dalla critica che dopo alcuni anni sono inghiottite nel dimenticatoio. Chi ha scordato la camminata del nerovestito Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco (qualcuno non a caso l'ha definita una delle icone del ventesimo secolo)? Chi ha scordato il voyeurismo di James Stewart in La finestra sul cortile? Ecco cos'è un capolavoro. Un film a cui quel gran farabutto che è il tempo non è mai riuscito a sibilare "Tu sei vecchio!".
P.S. Forse abbiamo sentito parlare di un certo regista come di un maestro indiscusso del cinema e di certi suoi film (in genere sul palloso andante) come di capolavori inarrivabili della cinematografia mondiale. Come si fa a capire se ci hanno raccontato delle balle? E' semplice si aspetta che il regista cocco dei critici in questione muoia e poi si nota se si parla ancora dei suoi film. Se sono trasmessi in televisione, anche a notte fonda, se se ne parla in giro, anche in ambienti specialistici. Se i film di quel presunto maestro del cinema sembrano morti con lui, be', forse non erano questi gran capolavori che ci hanno detto! Questo metodo ha il vantaggio di costringerci a permanere in questa valle di lacrime per qualche anno in più del previsto. :-)

lunedì 27 agosto 2007

The Queen


The Queen è un film che parla della regina Elisabetta soprattutto dopo la morte di Diana. Non è che sia molto avventuroso, ha un taglio documentaristico, ma mi è piaciuto. Avevo letto che la regina d’Inghilterra si era offesa per come veniva presentata sullo schermo, ma mi pare un’assurdità. La protagonista del film è una donna sofisticata, fiera, che si esprime con un linguaggio ricercato e pare pure più avvenente della vera regina, non che ci voglia molto a essere più avvenente dell’equina Elisabetta. E’ vero che la protagonista del film è molto tradizionalista e che dimostra poco dolore per la morte della nuora, ma in certe parti della storia manifesta sensibilità e anche smarrimento esistenziale (in sostanza si rende conto che il mondo è cambiato e che i valori con cui è cresciuta non sono più adeguati).
E’ invece la famiglia reale al gran completo a essere presentata in maniera negativa. Il principe Filippo è un cialtrone senza cuore interessato solo a sparare ai cervi anche in periodo di lutto; Carlo è un codardo tremebondo e opportunista che batte i denti a ogni alitare di vento; la regina madre una tipica esponente dell’aristocrazia precedente la rivoluzione francese; il personale di corte al gran completo, ciambellani e segretari, è fatto da burocrati ottusi che non manifestano alcun sentimento umano.
Tony Blair è presentato come l’unico tra i protagonisti dotato di pietà e umanità (l’attore che lo impersona gli assomiglia pure fisicamente). Si commuove per la morte di Diana, da lui definita “principessa del popolo”, ma si sforza di capire pure il comportamento della regina, da lui vista quasi con affetto filiale, e di comprendere i suoi sbagli. Nessuno in questo film però ci ha minimamente sussurrato che, forse, qualche piccolo errore lo hanno commesso pure il bravo guaglione Tony Blair e la scomparsa Diana… dopotutto siamo tutti umani, no?

venerdì 24 agosto 2007

Testimone d'accusa


Sto vedendo il film di Billy Wilder Testimone d’accusa del ’58 di cui ho parlato nel post Alza la gonna, Marilyn (è su Tmc di pomeriggio). Prime impressioni. Godo perché anche a distanza di decenni mi sembra il capolavoro che ricordavo. La potenza del doppiaggio d’epoca è inaudita. La voce italiana di Charles Laughton non ha rivali.
Vista la scena dell’interrogatorio di Tyrone Power e di Marlene Dietrich. L’avvocato Charles Laughton è il mattatore inarrivabile che ricordavo, domina tutto e tutti. La Dietrich comunque, con la sua gelida disillusione gli sta alla pari. Marlene mi stupisce, ironica, controllata, una donna che ha visto tutto il peggio del mondo, specie quello che si riferisce ai maschi. Disillusa, cinica, riesce a trattare Laughton come un bambino, facendogli scordare di quando era stato il cattivissimo comandante del Bounty. Non immaginavo che potesse essere così brava sullo schermo. Indescrivibile lo sguardo divertito e un po’ sprezzante che concede a ogni uomo sul suo cammino, con cui dice: so tutto dei tuoi vizi, ti sono sempre due spanne avanti, bamboccio. Cavolo, che donna.
Molto efficace pure Tyrone Power, nel ruolo di un gigolò ante litteram. Bravissima l’infermiera di Laughton che cerca di comandarlo a bacchetta dicendo “Facciamo un pisolino” o “Prendiamo la medicina” quando è solo l’anziano avvocato che deve compiere quelle azioni. Due particolari che avevo scordato. Laughton che sale le scale del suo appartamento con un curioso montacarichi personale (è malato e non può sforzarsi). Il raggio di luce che proietta negli occhi degli interrogati è provocato da un monocolo e non dal medaglione che rammentavo. Considerazione finale: sono grato al Creatore quando vedo che i vecchi film che mi hanno fatto sognare anni fa conservano la loro efficacia visiva malgrado il passare del tempo. E’ una cosa che non capita sempre. Il resto delle riflessioni su questo film nel mio post sopra ricordato.

martedì 21 agosto 2007

Film di mattina in un mondo in bianco e nero


C’è un’emozione che nessuno di noi che abbiamo una determinata età scorderà mai. Ha a che fare con il cinema e con i pochissimi film che si davano alla Rai quando l’emittente di Stato era in bianco e nero. A quell’epoca esistevano due soli canali nazionali. E cio che era peggio era che ambedue i canali avevano una cultura di programmazione televisiva degna della televisione bulgara ai tempi del comunismo reale. Ciò significava in sostanza che, oltre ad appestare gli sventurati telespettatori con programmi intitolati “A come agricoltura”, “Frontiere della scienza e della tecnica” o perfino “Programmi sperimentali per i sordi”, non si programmava un film decente se non in casi di emergenza nazionale.
Una piccola parentesi per chiarire che i film che all’epoca, anni Settanta, io consideravo decenti, erano le pellicole hollywoodiane degli anni Cinquanta, i titoli con Gary Cooper o Humphrey Bogart, i western con John Wayne, la commedia sociale o brillante con James Stewart, Cary Grant o Katharine Hepburn. Più di questo sinceramente non era lecito aspettarsi in tivvù. A peggiorare la situazione veniva il fatto che a quei tempi la programmazione televisiva prevedeva due soli film a settimana: il lunedì e il martedì o il mercoledì (ne faceva uno pure il sabato, ma era quasi sempre inguardabile, spesso si trattava addirittura di vecchiume del cinema muto, che comunque abbiamo visto così come ci siamo sciroppati qualunque cosa portasse la dizione “film”). Ebbene, solo il film del lunedì sera dava sufficienti garanzie di appartenere alla corrente cinematografica che io e altri spettatori dell’epoca consideravamo appetibile. Il resto della programmazione televisiva era una specie di roulette russa in cui ti potevano capitare odiose pellicole francesi, montagne di noia dell’Est Europa o perfino schifezze inguardabili con Amedeo Nazzari.
Tuttavia ogni anno invariabilmente accadeva un miracolo alla fine della scuola. Nella mia città e in altre si teneva la Mostra della Casa (A Napoli si allestiva alla Mostra di Oltremare). Era un prodigio che dimostrava l’inequivocabile presenza di Dio su questa terra, ne ero convinto allora e ne sono convinto adesso. La Rai, non so per quale motivo per ben due settimane trasmetteva un film al giorno in occasione dell’evento citato. Un film al giorno per due settimane! Nessuna emozione che io possa provare nel resto della mia vita uguaglierà mai la gioia di quando vedevo scorrere, in quelle mattine di giugno, i titoli di testa di qualche film con Humphrey Bogart o James Stewart. Nessuno che abbia l’età giusta potrà mai scordare il batticuore che accompagnava la sigla di inizio della Rai, quella con le nuvole, e poi l’annuncio del film alle nove (o forse alle dieci) di mattina. E che film. Roba buona. Western, storie con Jerry Lewis, Fred Astaire, Clark Gable o Doris Day. Solo poche volte in quei benedetti film di mattina ti propinavano qualche polpettone romantico italiano o qualche altra fregatura del genere. In ogni modo vedevi pure quella roba e ringraziavi il Cielo per quel dono inatteso perché a caval donato non si guarda in bocca. Ancora oggi ricordo con nitidezza l’emozione dell’attesa, quando, ancor prima che comparissero i titoli di testa, riuscivi a capire dalla colonna sonora o dal leone della MGM, se il film di quella mattina avrebbe fatto volare la tua fantasia.

sabato 21 luglio 2007

Peggy Sue si è sposata

Peggy Sue si è sposata uscì più o meno nello stesso periodo di Ritorno al futuro (metà degli anni Ottanta) e trattava all’incirca dello stesso argomento, un viaggio di circa 25 anni nel passato. Probabilmente è stato visto dai più come un clone delle avventure di Doc e Marty McFly ed è ciò che ha danneggiato questo splendido film di Francis Ford Coppola, pieno di atmosfere malinconiche e nostalgiche, con una colonna sonora azzeccatissima.
Kathleen Turner (Peggy Sue) è una donna di 43 anni che nel pieno di una rimpatriata tra vecchi compagni di scuola ha un malore e si ritrova trasportata all’epoca del liceo, tra rock’n roll e Happy Days venati di profonda nostalgia. La novità del film è che La Turner recita con il suo viso da donna matura pure la parte da adolescente (gli altri personaggi dell’epoca la vedono come una normale teenager di fine anni Cinquanta), riuscendo così a far percepire meglio il contrasto tra le esperienze giovanili vissute da una mente adulta. Peggy Sue canta con trasporto in classe l’inno americano, ha una breve esperienza sentimentale con un compagno di classe “maledetto” da cui all’epoca era attratta, si commuove rivedendo i nonni morti, vive alcuni giorni da ragazza con una coscienza adulta. Tornata di nuovo al presente si riappacifica con il marito Nicolas Cage, probabilmente anche a causa dei cambiamenti stimolati in lei dal viaggio temporale.
Cosa faremmo se potessimo tornare nel passato disponendo delle nostre esperienze attuali? Probabilmente ci comporteremmo come la protagonista del film. Probabilmente ci divertiremmo molto più di quanto ci è capitato e quasi di certo indirizzeremmo la nostra vita futura su binari più confacenti alla nostra personalità.
Il titolo Peggy sue si è sposata è tratto da un successo di Buddy Holly, rock’n roller morto in un incidente aereo nel 1959.

Cinema erotico di Samperi


Malizia di Salvatore Samperi è probabilmente il titolo più rappresentativo del cinema erotico degli anni Settanta, perlomeno è quello che io ricordo con più simpatia. Ancora oggi ho la netta percezione che sia stato il film più eccitante che io abbia mai visto, anche se in realtà l’apice erotico della storia consisteva nello sbirciare sotto la gonna di Laura Antonelli quando saliva su una scala per spolverare i mobili.
La trama. Il vedovo Turi Ferro si innamora della sua cameriera Laura Antonelli, che accetterà la proposta di matrimonio del pretendente solo se i tre figli di lui saranno d’accordo. Tuttavia il secondo figlio Nino - il compianto e bravissimo Alessandro Momo, morto a vent'anni nel 74 e tra l’altro dirimpettaio di Samperi - dimostra poca attitudine a considerare la Antonelli come futura madre, mentre si industria al meglio per portarsela a letto o per coinvolgerla in giochi morbosi. Alla fine la cameriera sposa il vedovo, anche se i due figli grandi dell’uomo sono ben lungi dall’avere per lei sentimenti filiali.
Ricordo che ero ben distante dall'avere l'età per vedere quel film, anche quando giunse nelle terze visioni delle mie parti. Avevo una paura fottuta di essere rimandato indietro quando mi fossi presentato a comprare il biglietto nel cinema; non avrei potuto sopravvivere all’onta di essere considerato come l’ultimo dei mocciosi. Comunque il giorno fatidico mi mimetizzai in una fila di ragazzi vocianti, quasi tutti più grandi di me e cercai di passare per uno più adulto di ciò che ero. Ogni tanto vedevo qualche ragazzino imberbe che riusciva a passare lo sbarramento opposto dalla cassiera e dalla maschera all’entrata della sala di proiezione e mi dicevo che c’era speranza pure per me. Però poco dopo riflettevo che il film era vietato ai minori di diciotto anni, mentre avevo meno dell’età che serve per comprare il latte nelle canzoni di Gianni Morandi. In qualche modo arrivai davanti alla cassiera con la nitida percezione di avvampare per la vergogna e di apparire alla stregua di un lattante. Cercavo di non guardare negli occhi la cassiera come si fa con i professori a scuola per non farsi interrogare, ma con mia somma sorpresa quella non mi degnò nemmeno di uno sguardo. Ero così sollevato che lasciai tutto il resto di mancia alla maschera e fino al momento in cui mi sedetti nella sala del cinema temevo sempre che qualcuno mi gridasse dietro: dove crede di andare quel ragazzino?
Ho rivisto alcuni anni fa in televisione Malizia e mi è piaciuto. Chiaramente aveva perso molta della carica erotica che aveva trent’annii fa, ma alcune situazioni erano ancora intriganti ed eccitanti come poche, il che prova che non si deve sempre mostrare quintali di carne in movimento per generare erotismo. Una cosa che ho scoperto di recente è che la riuscitissima colonna sonora è stata composta nientemeno che da Fred Bongusto, la fotografia era di Vittorio Storaro. La scena più forte in assoluto è quando il protagonista Alessandro Momo palpeggia la vedova consolabile Angela Luce sul retro di una macchina, credo proprio al funerale del marito della Luce. Che altro? Molte attrici sensuali, quasi tutte di una certa età, dalla ricordata Angela Luce a alla stessa Antonelli. Un ottimo Pino Caruso nel ruolo di don Cirillo. Film notevole e bello, di qualità nettamente superiore alla classica commedia erotica di quegli anni.
Di Alessandro Momo ho visto pure Peccato veniale sempre di Salvatore Samperi (c’è un particolare incontro ravvicinato del quarto tipo con la solita Laura Antonelli) e l’ottimo Profumo di donna di Dino Risi (l’accoppiata Momo/Alessandro Gassman funziona molto meglio di quella del remake americano con Al Pacino). Rivedrei volentieri questi tre film.

Doppiaggio classico


Sul doppiaggio ci sono varie scuole di pensiero. E' vero che si doppia solo in Italia. In tutti i modi è un'arte pure quella; è opinione diffusa che Oreste Lionello, ad esempio, abbia migliorato Woody Allen e Ferruccio Amendola Sylvester Stallone. Le voci di un tempo erano molto più impostate e innaturali, ma suggestive al massimo (vedi doppiaggio di John Wayne o Gary Cooper, e che dire di quello di Jimmy Stewart, della Monroe o di Jerry Lewis?). Oggi si preferiscono voci più informali e vicine al parlare quotidiano, ma in alcune circostanze sciatte da morire: è il caso di una giovane attrice hollywoodiana che passa dalle parti di piratessa a quelle di classici della letteratura).
La mia idea è che il ridoppiaggio di vecchi film è né più né meno che un crimine. E' come mettere orribili infissi anodizzati alla finestra di un palazzo d'epoca. Anni fa tentarono di ridoppiare Via col vento per renderlo più attuale e politicamente corretto, con la negra Mamie che non diceva più "badrona" e fecero un disastro difficilmente uguagliabile. Ormai stanno ridoppiando pure film relativamente recenti come L'inferno di cristallo sempre con risultati pessimi. Perché ottengono tali disastri? Secondo me per due motivi principali: uno perché nessuna voce moderna può rendere giustizia alle atmosfere d'epoca; secondo perché quando ridanno le voci ai vecchi film  di solito non prendono i migliori doppiatori moderni, ma quelli di seconda o terza fila, aggiungendo danno al danno.

Il cinema catastrofico


Ho visto un film stasera che m ha divertito molto La tragedia del Poseidon, rifacimento di un notevole kolossal catastrofico degli anni 70 con Gene Hackman e Ernest Borgnine. Questo film era sicuramente inferiore all’originale dal punto di vista della psicologia dei personaggi e della storia in generale, ma ho potuto goderlo con effetti speciali per me irraggiungibili in passato (non è che disponga di un grande arsenale visivo: un onesto televisore 28 pollici Mivar, un lettore dvd pagato 30 euro e un paio di cassettine con sub-woofer pagate anch’esse 30 euro… ma vi assicuro che i risultati sono sorprendenti e del tutto soddisfacenti, almeno per le mie tasche). Stasera ho avuto quello che ho sempre cercato nel cinema, ossia l’avventura. Il cinema per me è rimasto ciò che era tanti anni fa, quando da ragazzo mi sedevo in qualche scomoda poltrona di un cinema di periferia e aspettavo che l’avventura iniziasse sullo schermo e mi risucchiasse in essa. Ovviamente qualcuno avrà notato che la trama affrontava una di quelle storie di sopravvivenza che prediligo.

Ti piace ballare?


Mio fratello mi ha portato un film, Ti piace ballare? con Antonio Banderas. L’ho visto stasera e mi è piaciuto, come mi accade spesso di recente con film musicali (non era comunque a livello di quel piccolo gioiello cinematografico che andava sotto il nome di “School of rock”, straordinario davvero l’attore di quel film, Jack Black). I film sul ballo mi piacciono quasi sempre, forse perché il ballo resta uno dei desideri inappagati della mia vita. Questo qui era una via di mezzo tra Dirty dancing (il mondo borghese dei figli di papà contrapposto a quello di strada, una gara di ballo che sembra proibitiva per i ragazzi dei bassifondi: anche se poi sappiamo fin dall’inizio che i nostri eroi si comporteranno alla grande) e la scuola con ragazzi difficili sul genere dell'antico film Il Seme dell’odio o del nostro Meri per sempre. 

Banderas (devo dire che mi è piaciuto) interpreta uno strano istruttore di balli da gara, dal tango al fox-trot, che cerca di salvare certi ragazzi pieni di problemi dal crimine e dalla galera insegnandogli il ballo. Banderas è ridicolo, apre le porte a ogni essere femminile che si trovi sulla sua strada, dice “signore” a certi mocciosi con la faccia da spacciatori o delinquenti, insomma è il classico insegnante idealista che si fa in quattro per aiutare i figli del ghetto. Sappiamo già dall’inizio che ci riuscirà, perché questo è l’esito obbligato di certe storie, ma sappiamo pure che ci piacerà quando vedremo neri e portoricani che nella gara di danza finale faranno vedere i sorci verdi a certi odiosi ballerini figli di papà.
La parte più originale del film è quando si mischia il rap con il tango ottenendone un miscuglio sonoro esplosivo e soprattutto quando i ragazzi inventano degli originali passi di danza per adattarsi a quella nuova musica.Perché cavolo nella mia scuola non si è mai presentato un insegnante come quello?

The prestige


Sono rimaste in sospeso le mie riflessioni su due film che ho visto di recente. Me la cavo in fretta, almeno spero. Il primo film non mi è piaciuto per niente. Mi è piaciuto così poco che mi ha indotto a fare un gesto che considero un’eresia, cioè premere il tasto dell’avanzamento veloce del lettore dvd. In genere cerco di morire sul campo, ma di non usare quel tasto maledetto. Stavolta l’ho fatto. Il film era The prestige con Hugh Jackman. Ci sono due giovani prestigiatori a cavallo tra Otto e Novecento che si odiano e cercano di danneggiarsi in ogni modo, specie quando uno dei due è in scena. Non è un film fatto male, ma mi agitava troppo e inoltre aveva la grave pecca di trasformare, a metà del film, in cattivo e perdente il personaggio in cui ti sei identificato (nel mio caso era Jackman).
La caratteristica del film è che ogni volta che sei in scena per fare un numero di prestidigitazione capita un incidente più o meno mortale. Ogni volta che partecipi al numero della vasca piena d’acqua in cui vieni sigillato, legato o incatenato puoi star certo che morirai. Se fai il numero della pistola con proiettili a salve, puoi scommettere che quella pistola sparerà sul serio. Ho capito subito che questo film sarebbe stato una fregatura. Da quando all’inizio della storia muore la moglie di Jackman nella solita vasca d’acqua perché il collega del marito le lega i polsi con un nodo troppo professionale. Ho azionato il tasto dell’avanzamento veloce perché il film non mi prendeva, anzi mi innervosiva, ma volevo vedere come finiva. Non dico il finale, ma posso dire che l’avevo previsto all’ottanta per cento. Il venti per cento che non avevo previsto era perfino peggio delle mie intuizioni. Dato che si è fatto tardi dell’altro film parleremo un’altra volta.

The departed


Eccoci a The departed di Martin Scorsese, con Leonardo Di Caprio e Jack Nicholson. Il solito decadente film metropolitano che va di moda adesso, che va di moda premiare con gli Oscar (Crash). Detesto questo tipo di film, tutto buio psicologico, con i cattivi che vincono, con tutti i protagonisti senza esclusione presi dalla paranoia, dal mal di vivere metropolitano, dalla droga a gogò o dagli psicofarmaci, con Nicholson che ghigna senza alcuna vergogna, nel più puro stile fumettistico alla “Shining”… e con tu che hai capito in che tipo di film fregatura ti sei cacciato, ma avendone visto già mezzo speri che, per un miracolo, lo stronzo di regista dedito al politicamente corretto sport della denuncia sociale non faccia vincere i cattivi su tutta la linea e che dia almeno un contentino ai buoni. Detesto vedere questo tipo di film, tutto ombre e denunce. Io mi sono seduto in poltrona a vedere un fottuto film che dura due ore e mezzo e pretendo, dico pretendo, che al termine del polpettone gangsterico che mi avete ammannito, i buoni con cui mi sono identificato vincano. Non rompetemi le palle con la denuncia sociale, voglio che il protagonista con cui mi sono identificato vinca e abbia successo, perché io stesso voglio vincere e avere successo, seppure tramite i limitati mezzi offerti dalla visione di un film. Il film cupi che segnalano le magagne esistenziali moderne vanno bene, ma dovrebbero dichiarare subito dove si va a parare, senza fregature.
A ridatece Gary Cooper, aridatece Humphrey Bogart, aridatece Indiana Jones e addirittura lo Schwarzy del “Terminator II”. A ridatece l’eroe senza macchia e senza paura (anzi con la macchia e con la paura), ma che non rimane crivellato di colpi nell’ultima scena. Bah.

Syriana


Ho visto il film “Syriana”, in verità ne ho visto solo un tempo, ma credo che il mio giudizio non cambierà anche quando vedrò il resto. Che film è? Non è fatto male. Anzi, credo che sia stato scritto da persone competenti e capaci. Ma credo che queste persone abbiano compiuto un grave errore di impostazione. Probabilmente questi valenti sceneggiatori si sono riuniti attorno a un tavolo e si sono detti, magari davanti a qualche buon drink tipico della Hollywood dei bravi clintoniani con villa a Malibu: “Ora facciamo un film che fa riflettere. Un film di denuncia. Lo facciamo sotto forma di thriller così la gente viene a vederlo, ma ciò che vogliamo è fare pensare”. Questo a mio avviso è un errore di impostazione così grave che nemmeno una valida sceneggiatura può rimediarvi. Quando fai un film o scrivi un libro dovresti semplicemente pensare di raccontare una storia. Una storia che possa avvincere lo spettatore, con personaggi in cui ci si possa identificare. Se poi tu creatore della storia dopo aver creato questo racconto avvincente sei capace pure di far riflettere, di informare su un particolare aspetto spiacevole della società umana o di fare indignare, tanto di guadagnato. Ma il tuo obiettivo deve essere la storia avvincente con un protagonista capace di suscitare la simpatia del pubblico.
Cosa è accaduto invece? Prima di tutto il racconto risulta terribilmente spezzetato, ci sono almeno cinque punti di vista diversi, e ridurre i punti di vista è uno dei primi consigli che ti danno i manuali di scrittura creativa (Clooney, Damon, un ragazzo pakistano, il principe ereditario di un emirato arabo e una quantità di altri personaggi minori). Sei confuso; non hai il tempo di abituarti a seguire le vicende di un personaggio che ecco uscirne fuori un altro, magari pure poco interessante. Inoltre la visione è terribilmente appesantita da interminabili dialoghi in arabo con sottotitoli che alla lunga ti annoiano. Il ritmo lento non ti aiuta ad avere fiducia nel film e la faccia da Bourne Identity di Matt Damon porta scritto in fronte, alla faccia qualsiasi velleità di film-denuncia: “Qui Hollywood, la fabbrica della finzione”. Molto meglio mi è sembrato Clooney, sobrio e parco di parole, ma anche lui relegato nel ruolo di uno di questi eroi del sottosuolo che vanno di moda adesso che ti strappano più sbadigli che esclamazioni ammirate. Il risultato è che il film, per come è stato impostato, è di difficile visione. Per dirla tutta, annoia. Annoia con garbo, senza ucciderti, ma non ti fa battere il cuore. Ora mi vado a vedere il secondo tempo, ma se mi rompono le scatole ancora con quei lunghi dialoghi in arabo prometto che chiudo (fatti non fummo per leggere sottotitoli, almeno qui in Italia).

Televisione indigesta


Sulla televisione dirò il seguente pensiero. Di sera ho l'abitudine di farmi uno spuntino e di guardare la televisione mentre lo faccio. Non voglio guardare un programma che mi piaccia, perché ho la certezza assoluta che non ne troverò. Mi basta trovare una trasmissione che non mi disturbi mentre mi mangio il panino, come se fosse una specie di musica di sottofondo. Ebbene, non ne trovo. Non trovo un solo programma che non mi dia fastidio o mi faccia perfino incazzare (è noto che se uno si incazza quando mangia non facilita il processo di digestione). Il mio raggio di azione va dal primo canale all'ottavo, cioè da Rai uno a Mtv. Trovo tre o quattro idiozie di reality show, qualche gioco cretino condotto da presentatori odiosi, il fantasma di Pippo Baudo che se lo vedo muoio, la tizia che fa "Domenica in "(ne ha fatta di strada da quando presentava le trasmissioni dal Vaticano e si vestiva a lutto!), striscialanotizia, le solite pupe superdementi (che ti fanno mangiare il fegato il loro vocabolario disastrato e soprattutto perché se le pappano gli altri), sceneggiati di cappa e spada che scimmiottano le peggiori brutture hollywoodiane, reduci dall’isola dei famosi, mariti decerebrati di Simona Ventura, interviste con Mastella trattato come se fosse Fidel Castro. Sono arrivato al punto – e giuro sull’Onnipotente che non mento – che per mangiarmi il panino senza travasi di bile mi devo guardare “Walker Texas Ranger” con Chuck Norris!

Getaway


Ieri ho (ri)visto il notevole film Getaway del 1972 del “visionario della violenza” Sam Pechinpah. Cast di tutto rispetto, l’indimenticato Steve McQueen, Ali MacGraw (Love story), sceneggiatura di Walter Hill (I guerrieri della notte) e musiche di Quincy Jones. Il film è assolutamente superiore al remake fattone negli anni Novanta con Kim Basinger, come quasi sempre capita in questi casi. E’ molto più lento, con lunghe carrellate che danno uno spessore allucinante alla storia. Visto uno Steve McQueen taciturno e dallo sguardo di ghiaccio. Sorprendeva un McQueen così duro e credibile, soprattutto umano quando doveva gestire il rapporto con la moglie McGraw che l'aveva tradito con un uomo "d'affari" (soprattutto criminosi come quasi tutti gli affari) per farlo uscire di prigione.

Enrichetta ti amerò per sempre




Correva l’anno 1971 quando vedeva luce lo stupefacente film, piccolo e insuperato gioiello di eleganza, E’ ricca, la sposo, l’ammazzo, con Walther Matthau nel ruolo di Henry Graham e Elaine May in quelli di Enrichetta Lowell. Regia della stessa May, la quale è stata anche sceneggiatrice della pellicola.

Due parole su Matthau e sulla trama. In questo film Matthau è ai suoi apici interpretativi, scontroso e amorale, trasandato e orso, sempre in rotta di collisione con perbenismo e buoni sentimenti. E’ l’assoluto mattatore del film. Snocciola battute a ritmo forsennato, ben coadiuvato dai riusciti personaggi che lo assecondano, prima di tutto il meticoloso maggiordomo Harold, poi il ricco e rapace zio, l’avvocato corrotto di Enrichetta e tutta l’accidiosa servitù al completo della miliardaria pasticciona, tra cui spicca la volgare governante signora Traggert.

È importante ricordare anche il doppiaggio di questo film, che a mio modo di vedere ha ulteriormente migliorato la storia (i nostri doppiatori sono in alcuni casi dei mostri di recitazione). Gianrico Tedeschi presta la voce a Matthau conferendogli tutte le sfumature interpretative acquisite in anni passati a calcare scene teatrali. L’insuperato Ferruccio Amendola, padre di Claudio, doppia il corrotto avvocato McPherson; il mitico Carlo Romano, già doppiatore di Jerry Lewis e del detective fumettistico Nick Carter, si occupa dell’avido zio Harry. Colei che presta la voce alla candida Enrichetta, pur bravissima, è l’unico nome della compagine che non conoscevo, ossia Flaminia Jesolo.

La trama. Henry Graham, miliardario caduto in disgrazia, deve assolutamente sposare un’ereditiera per sfuggire ai creditori che lo accerchiano. La sua scelta cade sulla miliardaria pasticciona, esperta di botanica, Enrichetta Lowell. Henry progetta di uccidere al più presto la poco desiderata moglie in modo da ereditarne le sostanze e continuare la dispendiosa e farfallesca vita di sempre. Tuttavia alla fine ci ripensa lasciandosi soggiogare dall’amore.

Alcune tra le moltissime battute del film (me lo sono rivisto per appuntarmele). Vi consiglio di leggerle.
“E’ morto col patrimonio intatto?” Matthau rivolto a un suo amico miliardario, chiedendo informazioni sul padre di Enrichetta, mentre la suddetta, più maldestra che mai, versa tazze di tè su tappeti costosi.

“Madame, la sua ossessione erotica per questo tappeto è da compatire”. Il protagonista, versando la sua tazza di tè sul solito tappeto mentre la padrona di casa fa una ramanzina alla candida Enrichetta che già si è sbrodolata ben bene.

“Sono venuta con l’autobus”. L’ultra-ultra ricchissima protagonista, quando Matthau le dice che può mandare via la macchina (tutti si immaginano che viaggi almeno in Rolls Royce), dato che l’accompagnerà lui a casa.

“Buongiorno, signore, le rimangono esattamente sette giorni e nove ore prima dell’indigenza.” L’impagabile maggiordomo Harold al disperato Matthau che non trova moglie per sanare i suoi debiti.

“Il moscato extradolce della ditta Moghen di Malaga con soda e succo di arancio amaro.” Enrichetta descrive la sua bevanda preferita al disgustato pretendente (quel vino è una vera schifezza).

“Studiati il capitolo sulla classificazione degli esperimenti di Mendel.” Matthau al domestico Harold (ci sono pochi giorni per conquistare la ricca ereditiera e bisogna padroneggiare la sua sfera di interesse, che è la botanica).

“Enrichetta, la sola differenza tra noi è che io sono un uomo e tu una donna. E questa non dovrebbe essere una difficoltà se stiamo ragionevolmente attenti.” Matthau dovrebbe fare la dichiarazione d’amore, ma la lingua si rifiuta di assecondarlo.

La scena in cui il protagonista pulisce con un fazzoletto la bocca dell’imbranatissima partner prima di baciarla.

La scena in cui le risistema la camicia da notte alla greca la prima notte di nozze (Enrichetta aveva infilato la testa nel buco del braccio).

“La signora ha una servitù estremamente democratica.” Il maggiordomo Harold al suo datore di lavoro che chiede perché lo chauffeur della sua novella sposa non è venuto a prenderli all’aeroporto (si scoprirà poi che lo chauffeur si sta spupazzando una cameriera infingarda quanto lui).

“Se non sparisci da questa casa e dai terreni circostanti entro 45 minuti, io ti sparo in qualità di intruso con dimostrate intenzioni criminali.” Matthau allo chauffeur nullafacente e ladro. E’ in corso una festa in cui è presente anche il resto della servitù nullafacente e ladra della fin troppo permissiva Enrichetta. Il nuovo padrone di casa spara in aria un colpo di avvertimento.

“Mi sono preso io la libertà, signore.” Harold informa il suo principale che ha provveduto lui a tagliare il cartellino del prezzo dal nuovo abito di Enrichetta, fugando i di lui timori che la novella sposa se ne andasse in giro mostrando etichette varie sul vestiario (lo ha fatto varie volte nel film).

“L’ho chiamata Alsophila Grahamy.” La felce tropicale scoperta dalla maldestra ereditiera durante la sua luna di miele. E’ una specie mai catalogata e lei le ha dato il nome del marito.

“Henry, avrai sempre tutte queste attenzioni per me?” “Temo proprio di sì”. Matthau, tornando sulla sua decisione di affogare la novella moglie si è buttato nella corrente impetuosa del fiume e ha riportato Enrichetta a riva.

“Vieni, adesso è meglio tornare.” Ultima battuta. I due protagonisti si tengono per mano e si allontanano in un paesaggio naturalistico di rara bellezza. L’orso Matthau si è quasi trasformato in un tenero innamorato. Enrichetta, lungi dall’essere la bruttina descritta per tutto il film, col corpo bagnato d’acqua è bella e desiderabile.


Enrichetta ti amerò per sempre.

Ancora sull'"Esorcista"


Voglio dire una cosa su questo film. E' davvero pauroso, basterà dire che sono passati decenni dalla sua uscita e ancora spaventa (non molto tempo fa è stato riproposto in prima visione a causa del successo che ancora riscuote presso le nuove generazioni). Io credo che al di là di qualche effetto speciale datato e di qualche eccesso nella fase dell'esorcismo, sia un bel film, intendo dire proprio girato con efficacia, con personaggi di spessore psicologico, specie la figura di padre Karras (impagabile il volto triste dell'attore che lo interpretava). Stupenda la parte ambientata in Iraq, straordinariamente umano il poliziotto impersonato Lee J. Cobb, inaudita la presenza scenica di Max Von Sydow. Brava pure Ellen Burstyn, che ha vinto pure un premio Oscar, sia pure non per questo film.

Ci sono alcuni particolari del film che non hanno perso nemmeno un po’ di fascino nonostante il passare del tempo. Per esempio il doppiaggio dell’indemoniata, quella voce di basso che all’improvviso vomitava oscenità o che semplicemente si esprimeva con una personalità e maturità del tutto estranea all’adolescente Regan. O la colonna sonora di Mike Oldfield. O il doppiaggio italiano del film, che dà un precisa idea del modo di esprimersi dell’epoca. Stupende le parti in cui padre Karras parlava in greco con i familiari.

Ho letto pure il romanzo di William Peter Blatty da cui è stato tratto il film. Mi piacque tanto che lo lessi tre volte. Blatty aveva studiato come gesuita, credo, e conosceva perfettamente il mondo in cui si svolgeva la storia e lo descriveva benissimo (chiaramente nel romanzo ci sono situazioni e scene che non sono potute entrare nel film per brevità).

Ho visto l’ultimo film dell’Esorcista, quello sulle origini, e l’ho trovato scadentissimo. Ridicolo, una cazzata. Ultima di questo commento. Non mi spaventa nessun film di orrore. Mai. Posso sussultare come tutti quando nei film si usa qualche trucchetto sleale tipo gridare nell’orecchio di qualcuno all’improvviso.

Tuttavia rivedendo in Dvd qualche anno fa L’esorcista mi accorsi che mi sentivo parecchio a disagio nella scena in cui la ragazzina scende dalle scale come un ragno, ma a dorso in giù. Non so se era quella scena spaventosa o se mi spaventano i miei ricordi dii un tempo. :-)
Secondo me una delle più belle cose di questo film sono i caratteri psicologici dei due preti principali, padre Karras e padre Merrin (cioè quelli che sono sempre stati chiamati il pre3te giovane e il prete vecchio: in napoletano “ ‘prevete giovane e ‘o prevete vecchie”). Karras si trova a dover sostenere l’incontro con il Male nel momento peggiore di crisi religiosa. Ha dubbi. La sua fede è seriamente intaccata, forse vorrebbe lasciare l’abito talare. Come è possibile che Dio permetta tante ingiustizie, come è possibile che permetta la presenza di tanto dolore e povertà (“Padre, fate un’offerta per uno che un giorno serviva la messa”). O che faccia morire la madre sola e piangente. Karras è uno psicologo provetto, ha un approccio mentale tipico di uno scienziato e non di un prete, è moderno nella figura (ricordo che fece impressione il modo in cui divorava la pista di atletica mentre si allenava probabilmente per lenire il suo disagio esistenziale), fa pure pugilato. E’ una magnifica figura moderna, piena di sensi di colpa (si consuma nei sensi di colpa), senza certezze, soprattutto religiose. Quando l’attrice MacNeil gli propone di attuare un esorcismo sulla figlia, Karras è di gran lunga il più scettico dei due, è di gran lunga quello che crede meno (anche se l’attrice era un’agnostica senza alcuna educazione religiosa che si esprimeva preferibilmente usando termini come “cazzo” o “che cristo”).
Alla fine del film il tormentato Karras ritroverà fede e fiducia in sé e si sacrificherà per sconfiggere il male. Si è fatto tardi, alla prossima su padre Merrin e magari su qualche altro personaggio del film. :-)

Western con Robert Duvall


Visto il western di ieri con Robert Duvall (Duvall è stato Tom Hagen nel Padrino, cioè l'avvocato irlandese adottato da don Vito Corleone). Il titolo è “Broken Trail”. Non c'è niente da fare, quando tutto ti tradisce nel cinema, quando vedi cazzate su cazzate a due dimensioni, quando ti propinano schifezze moderniste piene di effetti speciali o di angosce metropolitane a un tanto al chilo, il western, quello fatto all'antica, come lo faceva John Ford, non ti delude.

Robert Duvall ha 76 anni e va a cavallo da Dio. E' assolutamente insuperabile quando, davanti a un bivacco nelle pianure de West conversa bonariamente alla sua maniera istruendo i giovani cow-boy sui misteri e sulla dolcezza delle donne o su altri aspetti del mondo, come se fosse un piccolo filosofo della prateria occasionalmente prestato al lavoro di mandriano.

Il film di ieri era un western fatto alla buona vecchia maniera (non c’è niente di peggio di quando si cerca di fare una storia con pistoleri e sceriffi introducendo figure moderneggianti che col West non c’azzeccano una mazza). C’era una mandria di cavalli da portare nel Wyoming, c’erano praterie senza fine, cieli infiniti e orizzonti lontani, e c’era Robert Duvall che filosofeggiava nei bivacchi alla maniera del West: che diavolo serviva di più?

L'esorcista, come si diventa uomini


Primo anno di liceo. Ho 14 anni, forse nemmeno. Quell’anno sento parlare di cose nuove e rivoluzionarie, che sembrano avere il potere di sconvolgere la società e terremotare le tue conoscenze. Una di queste cose rivoluzionarie di cui si fa un gran parlare è un film. Si chiama L’esorcista ed è uscito in America già da diversi mesi provocando, si dice, sconquassi peggiori di una squadra di dirottatori su Cuba. L’esorcista ha fatto svenire caterve di persone nelle sale americane, in qualche caso non le solite vecchine baciapile, ma vigorosissimi omaccioni. Alcuni sventurati caduti in deliquio a causa dell’incontro ravvicinato con il Maligno non si sono ripresi più, si dice ancora. Qualcuno giura che le famiglie delle vittime dell’Esorcista abbiano intentato causa alla casa produttrice del film e tutti si dicono certi che vinceranno il processo a occhi chiusi. Del fenomeno Esorcista ha parlato pure il presidente americano Nixon, ma pare che in questo momento abbia altre e più grosse gatte da pelare.

Il film è ormai nelle sale italiane, ma ancora in prima visione, dunque in posti inaccessibili alle tue tasche. Inoltre è vietato ai minori di diciotto anni. E’ un problema, perché nei cinema di prima visione non farebbero mai entrare un quattordicenne come te, anche se ben piantato. Il discorso tuttavia potrebbe cambiare dal giorno alla notte quando la pellicola più spaventosa di tutti i tempi approderà nelle terze visioni di periferia, dove, lo sanno pure le pietre, darebbero libero accesso anche a un moccioso col lecca lecca a un film di Salvatore Samperi purché sganci la materia prima necessaria.
L’attesa è alimentata da voci incontrollate provenienti da ogni dove. Prima di tutto c’è il solito compagno di classe che giura sulla tomba della madre, ancora viva e vegeta, che lui L’esorcista l’ha già visto in prima visione. Ha sgraffignato un biglietto gratuito a quel faccendiere di suo padre e… ha visto l’inconcepibile. La classe al completo si riunisce accanto all’ammirato spettatore dell’orrore allo stato puro, anche se più di uno nutre dubbi sulle sue sparate. Cominciano le ragazze. E’ davvero un film così spaventoso? Di più, non andatelo a vedere se volete dormire la notte. E la scena del vomito verde o della testa che ruota sul collo? Tutto vero al cento per cento. Anche la pipì addosso? Ci potete giurare, ma questo è niente, c’è ben altro. Qui le fanciulle abbandonano il campo disgustate, ma i boys restano accampati sul posto avidi di particolari sul sangue sul crocifisso usato come fallo dalla ragazzina terribile. Seguono altre spiegazioni, ora più inclinanti sul filosofico che sullo scabroso, come l’accenno a un certo medaglione che compare alla fine del film il cui significato simbolico pare essenziale per comprendere la storia. O come le lodi alla colonna sonora, “Tubular bells” di Mike Oldfield, l’unico punto in cui gli ascoltatori si sentono alla pari con chi parla perché hanno sentito quel pezzo musicale alla Hit Parade radiofonica di Lelio Luttazzi.

Passa il tempo. Le voci sul film continuano a peggiorare. Si sprecano le battute sugli analisti che dovrai arricchire per superare i traumi psicologici successivi alla visione dell’Esorcista. Poi viene l’evento sconvolgente, quello che ti fa chiedere se valga la pena di rischiare la tua sanità mentale per vedere un film sia pure sulla bocca di tutti. Tuo fratello più grande, un essere impavido capace di attaccare briga con brutti ceffi grossi il doppio di lui… si comporta d’un tratto in modo inspiegabile. La sera precedente non riusciva a prendere sonno, lui che di solito mette la testa sul cuscino e saluta il mondo. Non solo non dormiva, ma sembrava aver paura di qualcosa. Sì, che strano. Per una volta ha rinunciato a trattarti da postlattante o a darsi arie da grand’uomo che ascolta i Led Zeppelin ed è a un passo dal combattere la Rivoluzione sulle barricate. Il giorno dopo vieni a sapere, da tua madre, che tuo fratello ha visto L’esorcista . Ci è andato con la sua comitiva di balordi soprattutto per fare casino e disturbare la visione agli altri. Ma una volta sedutosi nelle prime file del cinema quasi pieno, a lui e agli amici balordi è passata ogni voglia di ridere. Tua madre non lo dice, ma pare proprio la storia di quelli che andarono per suonare e furono suonati.
E’ venuto il momento ormai più temuto che atteso. L’esorcista, il più agghiacciante film di tutti i tempi è arrivato al cinema del tuo quartiere. Hai paura di andarci, ma ormai è una prova di coraggio a cui non puoi rinunciare se vuoi continuare a chiamarti uomo. I problemi come al solito non vengono mai da soli. Tutti i tuoi non molti amici giurano che hanno già visto il film o che hanno da fare. Prendi la risoluzione finale. Vai al cinema da solo. Sembra pura temerarietà, ma potresti avere un vantaggio su tuo fratello e gli altri sinistrati dal film. Hai già sentito parlare di quella storia in lungo e in largo, questo forse ti aiuterà ad avere meno paura.

Le sei di sera. Do i soldi alla cassiera del cinema. Quella afferra la grana e non si sogna nemmeno di dirmi che non ho l’età per entrare. Il cinema è pieno. Confusione da non dire, una baraonda. Fumo di sigaretta a gogò. Aria attraversata da ogni genere di battuta triviale. Ottimo, si dice un certo ragazzino che ancora non ha smesso di tremare. Quello è l’ambiente adatto per non farti sentire paura. Via le luci, inizia il film. La cosa brutta è che a un tratto nessuno parla più. Per fortuna quando la scena si sposta in dall’Iraq alla casa americana dell’attrice Chris MacNeil il frastuono aumenta. Aumentano pure imprecazioni in dialetto e risate scomposte. Bene così, mi dico, tutta quella caciara è pura manna dal cielo. La baraonda è molto benaccetta sia nella scena dei topi in soffitta, sia in quella della scritta “help me” incisa sulla pelle della sventurata dodicenne Regan, sia soprattutto in quella dei mobili che si spostano da soli nella camera o, infine, nella parte dell’indemoniata che vomita oscenità infilandosi il crocefisso proprio lì dove aveva detto il compagno di classe fanfarone.
Rido anch’io con gli altri. Sono contento perché finora non si è verificato l’atteso tracollo psichico. Reggo bene l’interrogatorio sotto ipnosi dell’indemoniata e riesco perfino a sentirmi un piccolo eroe nella famigerata fase del vomito. Ma al momento dell’esorcismo l’atmosfera si fa tetra. Nessuno ride più. Poche le voci in sala e molto il fumo di sigaretta che ti aggredisce ogni poro epidermico scortato dalle bestemmie immonde del demonio. Sconfitto Karras con un trucco psicologico, il Maligno uccide padre Merrin. Qui ho paura. Che alla fine vinca il Male? mi chiedo nel silenzio irreale della sala. Niente affatto. Karras – ribattezzato “il prete giovane” a furor di popolo - torna nella stanza dell’invasata. Quando il demonio lascia il corpo della giovane Regan per entrare nel suo, si getta dalla finestra uccidendo se stesso, ma sconfiggendo il Male.
Il film è finito. Partono colonna sonora e titoli di coda. E’ tempo di andare. Ho ancora i capelli elettrizzati per le ultime scene e c’è un brivido gelido che non ne vuole sapere di lasciare la mia schiena. Eppure sono contento. Ho visto il peggiore incubo a due dimensioni di tutti i tempi, l’ho visto andando a cinema da solo e ho ancora la forza di camminare per le strade scure del mio quartiere. Non sono impazzito, anche se la prova delle prove, lo so, verrà stanotte, nel mio letto buio. In ogni modo so già che, magari con qualche difficoltà maggiore del solito, dormirò. Lo so.
Fuori dal cinema vorrei quasi fischiettare: forse oggi sono diventato un uomo.

Mare tra narrativa e cinema


Prima la narrativa. Ovviamente "Moby dick", che è un vero e proprio poema marino. Sicuramente il romanzo in cui il mare è il più vivo e credibile protagonista. A me comunque rimase impresso molto il mare procelloso di Salgari, forse perché quando leggevo i romanzi del nostro maestro dell'avventura mi trovavo in una fase della vita più ricettiva. Ricordo nitidamente il Corsaro Nero, accigliato, illuminato dalla tetra luce dei lampi caraibici, sferzato dalla furia del vento, aggredito dall'abbraccio mortale delle onde mugghianti, ammirato da ogni singolo uomo della sua ciurma e perfino dalla figlia del suo odiato nemico Wan Gould, Honorata, mentre con sommo sprezzo del pericolo tiene ferma la barra del timone della "Folgore", quasi sfidando la furia degli elementi a ucciderlo, perchè in quel caso il destino gli avrebbe fatto solo un piacere. Il mare in letteratura è per me il Corsaro Nero al timone della "Folgore" in una notte di tempesta. Se avrà tempo parlerò pure del mio mare nel cinema.

Rimasta in sospeso la parte cinematografica del mare. Vado a colmare la lacuna. Primo film "La tragedia del Bounty" del 1935, con Charles Laughton, uno dei migliori cattivi di tutti i tempi, e clark Gable. Ricordo una tempesta rinforzata dal bianco e nero (il mare per me è tempesta, mi pare di averlo già sottolineato nel commento precedente) in cui Laughton si comporta come un pazzo codardo. Film premiato con l'Oscar che preferisco senz'altro a quello con Brando e all'ultimo con Gibson. Film numero due "Duello nell'Atlantico" 1957, storia di un epico duello tra un sottomarino tedesco e una nave americana. I comandanti delle due unità marine, Curd Jurgens e Robert Mitchum avevano la caratteristica di essere autentici gentiluomini che facevano la guerra loro malgrado. Il "Moby Dick" del 1956 di John Houston, con un Gregory Peck nei panni di un Achab accigliato e maledetto. Infine il recente "Master & Commander" con Russel Crowe. Uno dei pochi film recenti che si distaccano dalla banalità e dal pressapochismo odierni, pur attingendo come si conviene ai mezzi spettacolari. Molto efficace il tono formale usato dai vari personaggi del film. Il mare di questo film è spesso calmo e il vento in bonaccia.

In morte di Glenn Ford


Dolore, dolore immenso per la morte di Glenn Ford.I personaggi del nostra vita se ne vanno. Loro muoiono e moriamo anche noi.Mi sono andato a rivedere la filmografia di questo grande attore che vivrà per sempre nelle nostre cellule cerebrali. E' incredibile il numero di titoli cinematografici che hanno accompagnato la mia esistenza e credo non solo la mia. A differenza di ciò che dicono i telegiornali io non lo ricordo per "Gilda". Quello mi è sempre parso il film di Rita Hayworth e non il suo. Lo ricordo con piacere in un gran numero di western. "Quel treno per Yuma", uno dei più grandi western di tutti i tempi, "La legge del più forte" con Shirley McLayne (Ford è un coraggioso allevatore di pecore che lotta contro la prepotenza dei grandi mandriani). Lo stupefacente "Cowboy" con un altrettanto stupefacente Jack Lemmon (Lemmon è un portiere d'albergo che diventa socio mandriano di Ford contro la volontà di questi). Il western che però mi è rimasto più impresso è "La pistola nascosta": il nostro eroe è stato il più veloce pistolero del West però trasformatosi in un tranquillo droghiere che odia le armi. Dovrà tornare a battersi contro la sua volontà.

Nel resto della sua filmografia spicca "Il seme della violenza" con un giovane Sidney Poitier, film che è la madre di tutte le storie di scuole con ragazzi difficili. Ottimo nel "Ricatto più vile" (è un'industriale a cui rapiscono il figlioletto), piacevole in "Una fidanzata per papà), commedia in cui un giovanissimo Richie Cunningham deve trovare una fidanzata al padre... Questi sono solo alcuni dei filn di questo attore straordinario, ma soprattutto personaggio unico che ha accompagnato la nostra giovinezza. Spaziava su tutti i generi cinematografici. Forse non era troppo appariscente nella recitazione, ma risultava estremamente efficace nella sua resa interpretativa. In questo momento rammento con perfezione assoluta la voce italiana che lo doppiava (indimenticabile come quella di tutit i doppiatori d'epoca). Vaja con Dios, Glenn. Sei qui dentro con tanti altri. Oggi moriamo anche noi un po’ con te.

La freccia nera fischiando si scaglia


C’è un solo modo per iniziare a parlare della “Freccia nera”, indimenticabile sceneggiato televisivo di decenni fa, è questo: “La freccia nera fischiando si scaglia / e la sporca canaglia un saluto ti dà”.
Sono le parole di una delle sigle televisive più amate e cantate di tutti i tempi, almeno in questo paese. All’epoca la stragrande maggioranza della popolazione italiana, comprese anziane ultraottantenni con almeno due infarti alle spalle e mocciosi piagnucolosi che a stento dicono mamma, sapevano citare almeno un verso di quel trascinante motivo. Io conoscevo tutta la canzone da cima a fondo, inclusi i fischi e l’epico “la-la-la” del coro dei briganti della foresta, e non ero per niente un caso raro in quell’Italia che fu, l’anno dello sbarco sulla luna e dello sceneggiato televisivo che ha riscosso il maggior indice di ascolto di tutti i tempi in queste contrade, sedici milioni e mezzo di telespettatori di media (altro che Elisa di Rivombrosa).

Due parole sulla storia. Regia del mitico Anton Giulio Majano, autore di opere mai dimenticate come “La cittadella” o “Delitto e castigo”. Il giovane Dick Shelton (l’attore Aldo Reggiani) è dibattuto fra le avverse fazioni degli York e dei Lancaster al tempo della Guerra delle Due Rose in Inghilterra. La bella e ribelle Joan Sedley (Loretta Goggi), si traveste da uomo per sfuggire a un matrimonio non voluto. Battaglie, tradimenti, eroismi, passaggi segreti, intrighi e briganti della foresta fautori della lotta alla tirannia.

Quando si parla della “Freccia nera”, ci sono molte cose che sei obbligato a dire. E le devi dire nell’ordine che segue.
Devi confessare che all’epoca eri innamorato follemente di Loretta Goggi (amore che continua tuttora quando la rivedi in televisione), anche se tutti ti consideravano un poppante a cui regalare odiose caramelle alla fragola. In questo tuo delicato sentimento eri in buona compagnia, perché qualsiasi individuo maschile dotato di raziocinio non poteva evitare di sognare di trovarsi in compagnia della Joan Sedley travestita da maschio (e di difenderla dai molti pericoli di cui abbondava la tumultuosa Inghilterra del Quattrocento). Inoltre ritagliavi le immagini della dolce Loretta diciassettenne da qualsivoglia giornale e rivista di gossip alla “Grand Hotel” e sognavi di cavalcare con lei in tenebrose foreste medievali, anche se l’unica volta che avevi visto un cavallo dal vero ti aveva fatto una paura mica da ridere.

Seconda riflessione obbligata: il tuo desiderio spasmodico di impugnare una spada vera e enorme con queste mani vibranti di emozione. La spada vera e enorme serviva per essere brandita in groppa a un destriero nella tua mente, sotto un’armatura di cotta di maglia, con tanto di stendardo di York o Lancaster (pur avendo seguìto lo sceneggiato con devozione e chiesto lumi agli adulti, non riuscivi mai a capire quale fosse la Rosa dei buoni, se quella rossa o quella nera, ma tanto non aveva importanza). Il desiderio di menare fendenti o stoccate ai malvagi diventava necessità insopprimibile quando assistevi alla sigla iniziale dello sceneggiato, da non confondersi con la canzone finale dei Fratelli della Foresta. La sigla iniziale era un travolgente motivo epico composto dal valoroso maestro Riz Ortolani, accompagnato da scene di cavalieri medievali che si affrontavano a viso aperto tra castelli in fiamme e sfondi di devastazione bellica. Peraltro il motivo di Ortolani a un tratto deviava magistralmente dal registro epico-guerresco a quello romantico, inducendoti senza indugio a rinfoderare spade e sogni di gloria e a cercare con gli occhi una figura femminile capace di farti palpitare il cuore.
Poiché la possibilità di procurarti una vera lama medievale era piuttosto remota per te ragazzino in calzoncini corti di un’Italia lontana, eri costretto a ripiegare su una spada di legno, costruita con amore e soprattutto con l'aiuto dei tuoi amichetti più portati ai lavori manuali. Ovviamente i tuoi amici avevano già una spada analoga, ben più solida della tua, forgiata con robuste assi di legno sottratte ai padri falegnami, piallata e rifinita con cura, ed erano ansiosi di affrontarti in un duello all’ultimo sangue. Tale duello era preceduto da almeno mezz’ora di dispute su chi avrebbe dovuto interpretare la parte dell'ammirato Dick Shelton (il perdente della disputa, in genere era quello con l’arma migliore che si sentiva in vena di magnanimità verso i disgraziati forniti di mazze di scopa semibruciate, ripiegava sulla figura del collaudato Ivanhoe).

La terza e ultima considerazione a cui sei costretto parlando della “Freccia nera” televisiva (ce ne sono da fare altre, ma quelle almeno sono frutto di una tua libera scelta) è la inaudita, impressionante bravura dei Cattivi di quello sceneggiato. A memoria d’uomo non si è mai vista una storia televisiva con cattivi tanto ispirati e convincenti. Prima di tutto c’e Arnoldo Foà nella parte di Daniel Brackley, signorotto inglese pronto a tradire e a uccidere chiunque per sete di potere (“vende” in matrimonio anche la povera Loretta Goggi). Foà ha tra l’altro fatto uccidere il padre di Aldo Reggiani, che ignaro del delitto gli è fedele servitore. Che dire del machiavellico Arnoldo? Magistrale. Indimenticabili i suoi ghigni, soprattutto unici i suoi inarcamenti di sopracciglia e quelle sue mimiche facciali così convincenti da farti credere che la malvagità era una componente naturale della vita. Foà recitò così bene la parte del cattivo da essere odiato da una generazione di telespettatori quasi come certi “fetienti” della sceneggiata napoletana.
Eppure anche il bravissimo Arnoldo trovò dei competitori agguerriti nel suo stesso cast. Prima di tutto Adalberto Maria Merli nel ruolo del sanguinario e gobbo duca di Gloucester(Rosa Rossa o Rosa Nera? Boh, vattelo a ricordare). Merli esibiva un sguardo diabolico perfino superiore a quello di Foà e uccideva, a differenza del personaggio di Daniel Brackley, per il semplice gusto di farlo (impressionante il modo in cui trafigge a sangue freddo alcuni nemici ormai vinti e imploranti grazia).
Non c’è due senza tre, ecco ancora un valente attore nella fazione dei cattivi, ossia il caratterista Alberto Terrani nel ruolo di Lord Shoreby, l’ultimo pretendente di Loretta-Joan, il quale dà un’interpretazione della cattiveria più tendente al frivolo e alla mondanità che alla crudeltà pura e semplice. Basta così? No, c’è posto anche per Tino Bianchi (sir Olivier, vescovo corrotto) e Leonardo Severini (Bennet Hatch), ossia i complici delle malefatte giovanili del terribile Foà, che a differenza di quest’ultimo sono dilaniati dai sensi di colpa (all’epoca questa sfumatura psicologica era parecchio dura da mandare giù: uno o è cattivo o non lo è, si diceva un certo ragazzino mangiatore di caramelle, e se lo è come fa a provare rimorso per le sue malefatte?)

La freccia nera moderna in tv


Ne dico una di passaggio fuori argomento. Stasera volevo vedermi la prima puntata della "Freccia nera" data in tivvù. Mi spingeva il ricordo dello splendido e mitico sceneggiato trasmesso dalla Rai alla fine degli anni Sessanta (che annoverava grandissimi interpreti del calibro di Arnoldo Foà diretti dalla mano esperta di Anton Giulio Majano). Un giorno devo assolutamente scrivere un post su questo magnifico sceneggiato televisivo e della formidabile sigla musicale ("La freccia nera fischiando si scaglia...") che ha fulminato un'intera generazione italiana.

Dunque vado per guardare la prima puntata e noto il protagonista, tal Scamarcio, che si rivolge al padre con un sottofondo di accento romanesco che parrebbe più adatto a inveire a li mortacci nostri che a recitare Stevenson. Vabbé, mi dico, un semplice caso, non sottilizziamo troppo. Nella seconda scena si vede un'amazzone a cavallo (poco prima l'attrice che impersona il personaggio era stata intervistata a "Striscia la notizia" dimostrando un quoziente intellettivo degno di una velina) che tende l'arco e galoppando a briglia sciolta scocca una freccia... che trafigge una mela posta su un palo a un centinaio di metri di distanza.

Mi qui mi sono detto, dovevano essere passati un paio di minuti: "Basta con le cazzate!" Non avrei lasciato che la volgarità di certa televisione moderna distruggesse i ricordi cari che serbo nel mio cuore.